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Marrakech Express

Marrakech Express

Habibi

Departure-icon 27/12/2011 - Arrive-icon 30/12/2011 2

checkpoint in casa di paolino tutti pronti per partire! ore 6.30 del mattino, colazione assonnata ed un ultimo incrocio di sguardi quasi a chiederci vicendevole conferma. fù in quel preciso momento che mi resi conto della gravità della mattata che ci accingevamo a compiere.

ci dirigiamo verso l’aeroporto, con disinvoltura e ostentata nonchalance per le pratiche d’imbarco intavoliamo presto mille discorsi mentre attendiamo l’apertura del gate numero 23. mi rendo subito conto di come due come noi possano apparire in una fila di attesa composta da donne con il velo alla testa e mariti con bimbi e borse in juta, noi travestiti da leghisti in divisa con la medesima sciarpina verde e le mani in tasca. ebbene sì, andiamo in marocco! l’euforia cresce di minuto in minuto, siamo solo a malpensa e già dò di matto. non mi è chiaro se tanta agitazione era dovuta all’emozione di sorvolare le colonne d’ercole per la prima volta o alla solitudine frustrante che ho provato per quasi tutto il tragitto a causa dell’invalidante narcolessia di paolino.

ma eccoci a marrakech, appena fuori l’aeroporto tempestato di mosaici e piastrelle colorate paolino trova subito il modo di litigare con il tassista in vestaglia di juta mentre io ero intento a capire se quegli odori provenienti dai sedili della fiat uno somigliassero più ad un fienile bergamasco oppure un allevamento di struzzi australiani.

ma quell’automobile era davvero una fiat uno oppure la delorean impolverata di marty quando si ritrovò nel far west in mezzo agli indiani? a me è parsa subito una macchina del tempo, a pochi minuti dall’aeroporto piombiamo in un altro mondo e in un’altra epoca.

la città ci accoglie con le sue mura merlate e le sue porte, la sua gente e i suoi colori. ma un classico di un turista appena arrivato in una regione araba è sicuramente lo shock olfattivo. finiamo subito in un mercato, mi sentivo fortunato credevo di assistere al mercato rionale settimanale, come quello di casa nostra, ma poi girato l’angolo mi rendo conto che quella è qualcosa di più di una semplice piazza, di un semplice mercato, quella è djemaa el-fna. c’è molta gente, moltissima gente, si vede subito che siamo in una logica diversa dalla nostra, una logica artigianale e non industriale, una logica di recupero e non di consumo, uno di quei mercati solidali insomma. superata la barriera delle macchine, dei cavalli, dei motorini, delle biciclette, dei carrettini e dei gatti randagi, siamo improvvisamente nella bolgia umana più caotica che abbia mai visto.

comunque non mi aspettavo fosse così bella, la piazza djemaa el-fna è veramente il cuore pulsante di marrakech, ne riassume i tempi, il divenire del giorno e della notte, i costumi e la vita sociale di tutta la città. gli incantatori di serpenti, i carretti di arance, le disegnatrici di tatuaggi, i mercanti in fiera. e di notte tutto scompare o meglio si trasforma, prendono possesso della piazza una miriade di carretti che come scatole cinesi si aprono a ventaglio con panche, tavoli, griglie, legna, attrezzi da cucina. quasi dei ristoranti ambulanti. una sorta di cena collettiva avvolta nei fumi dei bracieri, con tutti gli odori delle spezie che sembra di essere in una cucina napoletana e un aria che sembra di essere al petrolchimico di livorno. solo mangiando un gelato fritto ho provato tanta armonia di opposti.

ci lanciamo alla ricerca di un hotel, l’ambito jnane mogador era pieno zeppo di turisti previdenti che sicuramente avevano prenotato mesi e mesi se non anni prima la loro vacanza. ma paolino non demorde, arriviamo alle porte del nostro riad hamza dove decidiamo di fermarci.

è già buio, mentre gli antichi viaggiatori si riunivano la sera in tavola a filosofeggiare, noi moderni turisti mettiamo in tavola i nostri pregiudizi. impavidi e divertiti da un’intera famiglia indiana seduta tutta intorno a noi, attendiamo con pazienza il nostro tavolo che una mendace geishia marocchina ci promette impegnandoci le mani con due calici vuoti e una bottiglia di buon vino marocchino. chissà cosa racconteranno ai loro amici dopo l’incontro con due come noi, in fondo sono due mondi paralleli che si sono incrociati per un po, come quando succede quando le persone vengono rapite dagli extraterrestri. paolino perde la testa, mangia, beve, ride e si diverte. introduce abilmente nel reggiseno di una danzatrice del ventre vicina al nostro tavolo una banconota da 200 dhiram. probabilmente l’equivalente di uno stipendio di un insegnante di ruolo del posto. che peccato, da li a poco si rende conto di aver sottovalutato quella banconota con uno zero in più di quello che era disposto a pagare per cacciarla via dal nostro tavolo. già, che peccato, la serata con la danzatrice del ventre sfuma in nulla di fatto, avrei voluto vedere paolino circondato dall’harem di ombelichi e veli trasparenti ondeggianti tutt’intorno, ipnotici come il ritmo delle tablas e ammalianti come il suono delle ciaramelle. ma non accade nulla. non ci perdiamo d’animo. troviamo comunque il modo di trascorrere la serata, infatti usciamo dal ristorante barcollando tenendoci sotto braccio per mantenere l’equilibrio. è fatta. siamo ciuchi come chiunque occidentale pagano in un paese arabo-musulmano, rinvigoriti dalle spezie del tajin e annacquati dal tè.

ma mentre la giornata volge al termine e in piazza ci sono ancora giocolieri e danzatori di tamburi, nel nostro albergo si consuma un dramma! infreddoliti dalla notte marocchina entriamo in camera con il gesto consueto di chi si sta per spogliare di sciarpe e guanti, giubbotti e maglioni impregnati di spezie e smog. macché! il gelo di una cella frigorifera ci accoglie come all’ingresso del museo del ghiaccio di stoccolma, come una prestigiosa suite di un igloo lappone, come il frigorifero abbandonato di paolino. e così mentre impazienti attendiamo che il condizionatore penzoloni dal muro faccia quantomeno il suo dovere, saliamo su in terrazza a bere tè e a fumare le sigarette marocchine al retrogusto di menta e gomma di copertoni. una vera poesia, la cornice di stelle, il campanile della moschea sullo sfondo e i suoni della piazza vicina concludono la prima serata della nostra brevissima avventura in stile marrochin express.

notte di stenti, con io che sotto le coperte credevo di dormire in una camera iperbarica e paolino più freddoloso di me che lottava per mantenere salda la sua posizione sul materasso ormai riscaldata come una sagoma di gesso disegnata sul pavimento.

zZz… ZZz…

ma quando ci risvegliamo il paesaggio è talmente bello che il ricordo del freddo lappone, il rumore del condizionatore con motore a scoppio e le coperte datate all’incirca 25 anni dopo cristo sono ormai dimenticati. anche il misterioso verso somigliante ad un grosso volatile che risuona dagli spifferi della finestra e il richiamo alla preghiera delle moschee mi provoca un gran piacere, la colazione con le uova e il pane marocchino mi piace!

sole caldo, arietta fresca e profumo di spiedini di montone nell’aria, ci aggiriamo impavidi tra le bancarelle del souk, nel cuore della medina. l’ingresso di questo grosso quartiere pare assomigliare ad un grosso imbuto, inizialmente godi di uno spazio vitale attorno a te che ti permette di guardarti intorno, di calcolare le vie di fuga al passaggio dei motorini, di capire se è meglio camminare sulla destra o sulla sinistra del carretto con sopra montagne di uova pericolosamente ammassate l’una sull’altra. ma pochi passi dopo un formicaio fitto e angusto si dirama dinanzi a noi e l’impressionante numero di negozi e bancarelle che vendono più o meno le stesse cose, l’odore di zafferano e cannella e i negozianti che ci invitano incessantemente a guardare all’interno, mi rendono euforico, ma mi trattengo limitandomi ad osservare rimandando al domani il desiderio ‘irrefrenabile’ di fare shopping.

chissà, forse col passare del tempo il nostro aspetto sempre più trasandato con le barbette incolte e maleodoranti come le infradito di tanti intorno a noi ci rendono oggetto di attenzioni di loschi personaggi intenti ad offrirci hashish o altra roba da fumare. ma noi puritani vegetariani amanti dell’erbolario e del bagno caldo decidiamo di dare un senso più ‘culturale’ alla giornata e ci incamminiamo verso una delle tappe obbligate della nostra avventura da viaggiatori indipendenti.

vaghiamo per la città, raggiungiamo il giardino majorelle. questo posto non è bello, ma bello bello bello che non mi immaginavo fosse così bello. un luogo pieno di poesia, popolato da cactus e bambù, circondato dal fondale blu tuareg delle mura che percorrono il perimetro e impreziosito da laghetti e pesciolini rossi sparsi un po ovunque. davvero una splendida cornice zen, un po’ come il giardino del profeta di kahlil. subito dopo facciamo due passi a piedi nella zona est della città, tra studi di fantomatici dentisti con tanto di merce esposta e veterinari di mucche e galline, tra laboratori e botteghe artigiane di falegnameria adibite a panifici e alimentari, tra negozi di elettronica con apparecchi a valvole e adesivi della apple. lo sviluppo che noi esportiamo nel terzo mondo è pazzesco, sembra il frutto di un esperimento batterico. chissà, sarà forse per il traffico, per i semafori ambigui e per i sensi delle rotatorie interpretati dal libero arbitrio degli automobilisti, che per un attimo ci perdiamo chiediamo indicazioni ai passanti, ripercorriamo le strade come pollicino e ritroviamo presto gli odori e i colori a cui ci eravamo ormai abituati ed amalgamati. ma d’altronde l’unico modo di viaggiare è perdersi, magari a due passi da casa ma con la sensazione di non sapere esattamente cosa succederà. a pensarci bene non è successo quasi niente, abbiamo visto della segnaletica stradale disegnata a mano, abbiamo attraversato degli incroci sfidando la sorte e il buon cuore degli automobilisti, abbiamo conosciuto gente che cercava di proporsi come guida turistica e che quasi era in pena per noi italiani ridotti ormai in mutande dall’attuale cristi storica che stiamo vivendo. le parole più usate sono state, italiano vero, bancarotta, crisi, senza soldi, milan ac e paolo maldini.

siamo frastornati, rapiti ancora una volta da quel colore ocra/terra del paesaggio e soprattutto affamati come lupi. l’obbiettivo minimo è scappare, filarsela, arrampicarci più in alto che si può come le capre sugli alberi di argan, al riparo dai predatori e dai pastori che vogliono tosarci per fare di noi il loro tappeto per la preghiera. una volta in piazza saliamo su una delle tante terrazze a consumare il nostro meritato pranzo pomeridiano, disillusi dalla speranza di bere una birra fresca e consolati dal buon couscous alle verdure e dallo squisito pane marocchino. ed eccoci ancora qui, assieme a tutti gli altri turisti reduci malconci dalla piazza, ridotti ad osservare dall’alto lo sciamare invasato dei mercanti e dei procacciatori di ristoranti, noi qui tutti assieme spettatori a distanza di sicurezza della vita frenetica della piazza di marrakech.

osservando il comportamento delle persone, la vita quotidiana della città, gli usi e costumi di un popolo così legato alle sue tradizioni, riesco a leggere tra le righe una sottile ma imprescindibile legge della fisica che sostiene un precario equilibrio tra ordine e caos, tra libertà e proibizionismo, tra cordialità e burberità. ma in fin dei conti anche dalle nostre parti sembra essere così.

e così, sull’onda emotiva del viaggio culturale alla scoperta della nostra città imperiale affrontiamo una lunga, estenuante ed interminabile strada che ci porta ai giardini della menara, un immensa distesa di olivi che custodiscono una gigantesca vasca da bagno, ai tempi utilizzata da un gigantesco sultano per imparare a nuotare. oggi custodisce tra le sue acque gigantesche carpe fameliche che ci guardano dal basso in attesa che uno di noi perda l’equilibrio. dalla terrazza dello splendido gazebo in marmo e tufo che si erge imponente sullo specchio d’acqua io e paolino meditiamo su come sarebbe bello arredare quella casetta di campagna secondo i nostri gusti, lui più rivolto a preservare la poesia della costruzione, io a cercare di impiantare quanta più domotica e hi-tech nella sala da pranzo. peccato, alla fine non abbiamo rogitato l’acquisto perché in fin dei conti sarebbe stato difficile separare il giardino per i gatti da quello del cane.

il ritorno a piedi e il nostro riad, vissuto come il miraggio di un oasi nel deserto, vede protagonista il buon caro paolino addormentarsi sul letto ancor prima di cena in preda ad un attacco di narcolessia fulminante. in questo modo ho anche provato l’ebrezza di un personalissimo ramadan fuori periodo.

Zzz.. ZZz.. zZz…

il terzo giorno, come nelle sacre scritture, paolino risuscitò di buon ora, anzi, era ancora buio, attendiamo impazienti la fine del ramadan notturno per tuffarci a capofitto sulla nostra colazione alle prime luci dell’alba. ma ecco, ciò che più temevo, giornata di shopping compulsivo.

i vicoli della vecchia medina hanno sì l’odore del marocco, ma il sapore di un medioevo.. come dire, più europeo. si vede che i francesi hanno lasciato la propria impronta, qui tutti mangiano ancora le lumache! stradine strette, tortuose, affollate, con camion e motorini che ti sfiorano quasi richiamare il piacere dello scrubbing di un hammam dei loro cugini turchi.

tra trilobiti ed ammoniti, tappeti e tappetini, borse e borsellini, scarpette e babouche, anelli e bracciali, spezie e afrodisiaci, rimediamo anche le avances dei venditori disposti a tutto pur di accalappiarci nelle loro botteghe. ad ogni acquisto contrattiamo. comunque ho capito che è solo una questione di tempo. loro hanno tanto tempo e noi no! da una piccola bottega scura e piena di copertoni, compare un nonno con la barba grigia che sembra essere uscito dal libro del corano. si presta per una foto, fiero e magnanimo della propria semplicità. è questa una delle immagini più belle.

qualche passo più avanti incappiamo in un negozio di dischi contraffatti con le copertine di tuareg e divi locali vestiti dal pret-a-porter dei primi anni 80. mentre dalle casse ascoltiamo musica marocchina moderna, mando giù una pasticca di aulin marocchina antica, uno sballo!

girando per strada si fa fatica a capire quale siano le costruzioni antiche da quelle moderne, se non fosse per i pali della luce sembrerebbe di essere sprofondati indietro nel tempo. le mura in costruzione le tirano su storte come quelle vecchie e poi con l’intonaco di terra riescono ad amalgamare il tutto con il paesaggio. apprezzata dunque anche l’urbanistica della città, riusciamo a raggiungere anche un sito storico di marrakech, le rovine di antichi fasti, un grandioso palazzo di cui ormai non restano altro che dei ruderi di almeno cinquecento anni fa, una complessa costruzione con un atrio centrale intercalato da vasche e piscine, stanze e dependance come nell’antica pompei. ma che paradiso! ci sono pure le cicogne appollaiate sui loro nidi.. il bhaadi mi regala il romanticissimo accoppiamento di due cicogne giganti, osservo estasiato il loro rituale di corteggiamento e rifletto per qualche istante sulla natura monogama di questi uccelli così tanto decantati dai nostri genitori quando ancora siamo troppo piccoli per capire come in realtà funziona la nostra vita.

è quasi sera, mi sento rapito da questo rosso ed arancio, una distesa di polvere e stelle. l’imbrunire e l’odore di cucina nell’aria ci suggeriscono di non ignorare il nostro appetito. certo, ogni paese ha i suoi tabù alimentari e i suoi particolari concetti di schifo. ma proprio non capisco gli sguardi disgustati di baristi e cameriere della pizzeria quando cerchiamo tra i menu qualcosa diversa dal te o la coccola. ci concediamo comunque una cena più occidentale delle altre a base di pizza e birra analcolica. ancora una serata magica che volge al termine, forse anche dal sapore un po nostalgico che ci ricorda purtroppo consumare la nostra ultima notte in marocco. le ultime passeggiate sulla piazza, le lanterne dei venditori ambulanti, i profumi e gli odori contrastanti di djema el fna ci salutano mestamente, invitandoci a tornare presto e a visitare quello che sarà per sempre il mio primo amore africano, il mio battesimo del fuoco, una delle mie vacanze più piacevoli che nonostante tutto abbia mai trascorso.

zZz… ZZz… zZzz…

partiamo, sull’aereo mi intrattengo con un vicentino, più che una persona comune, un vero coatto comune, la nostra discussione più che il racconto del viaggio in comune si tratta di un trionfo di luoghi comuni, l’ideale per trascorrere le ultime due ore di viaggio in aereo mentre paolino sonnecchia beato nella sua sciarpina padana.

Lemure

UX Designer, Filmmaker

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