Una camera spaziosa e pulita, letti bianchi ed ampie finestre esagonali che aprivano da un lato su uno scorcio di vita domestica locale e sull’altro, attraverso chiome verdi del giardino incantato, verso la brulicante città. I piccioni zampettavano sulle lamiere degli edifici prolungando l’incessante ticchettio della pioggia monsonica sui tetti improvvisati con materiali di riciclo.
All’uscita del giardino, un nugolo di risciò richiamavano costantemente al giro turistico della citta. Kathmandu è cupa, ocracea e grigiastra, costellata di negozi da cui fuoriescono smerluccianti scintillii provenienti da luci amplificate dal riverbero con l’ottone e dal roseo cupreo. Thamel è il quartiere più turistico ed affollato di tutta la capitale, dirigersi verso Durbar Square – la Piazza del Palazzo, significa chiedere a più riprese le indicazioni, perché nella capitale, ci sono ben tre piazze con lo stesso nome (così dicono) anche se quella che interessa a noi, dista circa 700 metri dal punto in cui ci troviamo.
Entrare nel piazzale dalla biglietteria costa 750 r.n., anche se è possibile entrare nella piazza da un altro punto veleggiando la sorveglianza (cosa che però scopriamo l’ultimo giorno). Tutt’intorno si stagliano imponenti gli edifici più significativi, dall’Hanuman Dokhi (dokhi in nepalese significa anche uva, vigneto), il vecchio Palazzo Reale, dove come una sacra reliquia, troneggia (così si può dire) il trono su cui son stati incoronati tutti i sovrani nepalesi.
Al piano rialzato, dopo due rampe di vertiginosi e scricchiolanti gradini in legno, inchiodata alla sua sedia spelacchiata, una custode, che pur di non rispondere alle richieste dei visitatori, si finge addormentata a comando, per poi risvegliarsi ogniqualvolta il richiedente rassegnato, di allontana, insomma, un opossum, come la definisce Teo… Una piccola veranda dai pilastri intagliati, protegge i ritratti ingialliti degli ultimi sovrani Sha, dal primo dell’ultimo, Da Birendra, Dipendra (l’assassino folle d’amore) a Gyanendra, costretto ad abdicare.
La colonna squadrata di Pratap Mala è assediata dai piccioni che donano al luogo un olezzo di ammoniaca a questo impercorribile sito in mano all’Unesco. Il Pragenda Degutalla Temple in mattoni rossi e legno meticolosamente lavorato, in Basanthapur Durbar vigila da secoli sullo skyline della capitale, che dall’alto, sembra placida e non contagiata dalle moderne architetture che dagli anni ’70 in poi hanno aggredito quasi tutte le periferie del mondo. Poco più in la, sulla sinistra, un (brutto e malconcio) edificio in stile neoclassico-vittoriano, il Gaddhi Baitak celebra la smania novecentesca di scimmiottare i lussuosi palazzi londinesi, con l’unico risultato di creare un ibrido architettonico coperto di cemento passato a calce e muschio.
Sulla fianca destra, all’angolo della piazza si trova il Kumari Chowk, ovvero la residenza della ‘Dea Bambina Vivente’, ovvero la vergine, l’incarnazione della dea Durga, che viene selezionata in età prepuberale seguendo dei requisiti molto particolari (32) in una ristretta cerchia di ‘orafi’ del posto. Le prescelte saranno poi costrette a trascorrere una notte tra teste recise di capre, danze demoniache e altre atrocità. Colei che non piangerà sarà la prescelta e resterà isolata dal mondo (salvo qualche apparizione in pubblico), perennemente assisa su una portantina, iperprotetta, in modo che non possa farsi male. Ogni settimana, a discrezione della stessa, è possibile assistere ad un’apparizione nella corte antistante al Chowk. Qualsiasi goccia di sangue versata prima del primo ciclo mestruale, sarà causa di espulsione dal palazzo con conseguente perdita delle prerogative divine. Verrà poi restituita al mondo comune, con un congruo vitalizio da parte dello stato.
Vagabondiamo per le frenetiche vie della città, tra edifici ricchi di fascino, decorati con leoni e draghi dorati, colonne intarsiate e gradoni di marmo costeggiati da statue antropomorfe, in uno schizofrenico pot-pourri di forme avvolgenti. Rientriamo consunti alle 16.00 al P.G.H. per una meritata pausa in un placido giardino, angolo salvifico per i nostri corpi ridotti a fatiscenti fardelli trasportati da un continente all’altro senza sosta. Si cena al Thamel Restaurant, bello e accogliente, con un piccolo shop di oggetti in legno lavorato proprio dinnanzi all’ingresso. Cena per nulla imperdibile, menu turistico e camerieri stile lacchè… All’uscita ci regalano pure una piccola maschera di Laxmi e Davi in gesso dipinto. Tutto ciò ci costa 4500 r.n., una follia! Ma vabbè, cercheremo meglio nei prossimi giorni. Il giardino incantato, come una piccola miniatura tratta dalle pergamene illustrate degli epici indù, ci attende, li dinnanzi, con la sua Wi-Fi che funziona ad intermittenza, il suo assillante staff, la sua statua di Ganesha sull’angolo sinistro della scala, il proprietario con sguardo furbesco e il suo orrendo cane dal muso ringrinzito, antipatico e completamente indifferente alle persone di passaggio. Confortiamo amici e parenti, sorseggiando te e una birretta, lanciando un occhio al cielo cupo e senza stelle. Le nubi oggi non ci hanno mostrato nemmeno una vetta himalayana…
13 agosto
Svegli all’alba, colazione con annesse maledizioni di Teo volte a me e Vale perché l’armonica sinfonia in russata do maggiore ha creato scompiglio in camera, coprendo persino il già forte baccano causato del temporale che ha sconquassato la coltre tenebrosa. Dopo un’imbevibile caffè, si zampetta verso il Kaiser Garden, sito quasi di fronte all’ex Palazzo Reale di Narayanithi (la bella e la bestia, visti uno di fronte sull’altro). Questa meraviglia architettonica (il giardino recintato) è frutto di un colpo di fortuna di un tal signor Sing, arricchitosi con una vincita milionaria al gioco. All’interno del recinto, un’enorme padiglione neoclassico, stagni e ninfee, palmizi, prati all’inglese dove giardinieri chini tagliano l’erba con le forbici. Grilli e ranocchie gracchiano e creano un ritmo davvero unico che riesce ad allontanare il frastuono del caotico incrocio che proviene dall’esterno. Dopo circa un’ora di pace, ci ributtiamo nella giungla di cemento, alla ricerca di un mezzo per Pokhara, località lacustre raggiungibile con non meno di 5 ore di viaggio.
Lo spostamento ci costerà circa 9500 r.n. e la partenza è prevista per l’indomani alle ore 9.00. Teo vuole assolutamente visitare l’orrenda chiesa anni ’70 che è il Palazzo Reale, teatro dell’ecatombe della famiglia reale avvenuta il 1° giugno 2001… Vale è molto reticente, lui non ama il gossip-macabro, mentre Teo ne è attratto (a me piacciono i palazzi reali di qualunque specie, forma o contenuto). Il palazzo è chiuso, giornata di chiusura, per cui non resta che camminare lungo il vialone che conduce al recinto di ingresso. Poco più avanti sostiamo in un bellissimo locale moderno, l’Himalayan Java, dove pancake e caffè decente allietano questa plumbea ed umida giornata. Sono le 14,00, primissimo pomeriggio e il desiderio è quello di evacuare dalla città, dove tutti (tutti) girano con la mascherina antismog. Optiamo per un giro sulle colline adiacenti al monastero detto ‘delle scimmie’ di Swaymbunath, patrimonio Unesco, arroccato sulla cima di un monte. È il sito più famoso del Nepal, chiunque lo conosce e tutti ti invitano ad andare a visitarlo. Una lunghissima scalinata dove scimmiette irrequiete si rincorrono tra gli alberi intelaiati dalle coloratissime bandierine multicolore, chiamate lung-tha (cavalli volanti) famose nei paesi buddisti, che sventolano in ogni luogo sacro. Giriamo in senso orario lungo la base dello stupa principale, che dall’alto ti sorveglia con i sui occhioni pittati ed il naso composto dal n°1. Tal signor Buddah, come copricapo ha 13 livelli bronzei che rappresentano il cammino alla perfezione. Tutt’intorno una folla osannante si aggira per il tempio, in senso orario, montagne di ciotole in terracotta utilizzate per le oleose candele giacciono sbriciolate agli angoli dei monumenti, chiazze d’olio decorano il pavimento di marmo come nel retro di una cucina cinese nel pieno della sua attività.
Il cielo è azzurro, ora non piove e questo è già un dono. Un santone mi abborda, mi fa scegliere un disegno e mi recita una sorta di preghiere/profezia, che uno scribacchino alla sua destra mi trascrive. È un’aquila, e il vaticinio è ‘dalla a chi ti beccherà la testa’… Mi dicono essere un’usanza Newar, etnia locale, quella di apporre il destino di un individuo che poi lo seguirà fino alla cremazione… Brrrr! Mi aggiro perso, tra odori dei corpi come in un formicaio. Un topo scorrazza liberamente tra le scimmie, fin dove il grande Dorje (simbolo tantrico maschile) assiso su un altare di pietra cosparso di riso e petali, accoglie i fedeli che dalla vertiginosa scalinata giungono al complesso. Noi lo percorriamo in discesa, sfidando le orde in salita. Vertigini, un migliaio di gradini giungono sino al piazzale dove alcuni mendicanti e venditori di fortuna procacciano cibo e monetine. Ad un’amabile signora seduta con il pargoletto sotto a delle altissime piante, faccio qualche dono, tra cui un tubetto di dentifricio. Poco dopo, un ragazzo parzialmente cieco, decora e vende pezzi di stoffa utilizzando un metodo tutto nepalese, ovvero, con un aghetto conico riesce a simulare lo stesso processo della macchina da cucire, creando immagini e decorazioni vellutate. Ne acquistiamo un paio cercando di scimmiottare la sua indiscussa (ed inarrivabile) manualità.
14 agosto
Partenza per Pokhara, località che in nepalese significa ‘lago’. Ore 8,30 un’automobile ci attende nel retro dell’albergo. È una giornata uggiosa, l’ideale per intraprendere un viaggio di 5 ore (minimo) su una strada a picco su una sequenza di burroni tutti da scoprire. Versiamo parte dell’importo stabilito affinché possa fare la benzina e i rifornimenti vari per le sue esigenze. Il viaggio è snervante, le strade sono senza guardrail, e tutto ciò non impedisce di vedere cosa, nella non remota eventualità, possa accoglierci a valle… una risaia o un fiume in piena? Gli automobilisti si sorpassano a tutta velocità, senza troppo porsi domande, e spesso corrediamo i loro slanci irresponsabili con gridolini di paura. NOOOooooooooo…..! Qualche masso caduto dalle pendici scoscese, come sentinella, attende la propria rimozione per essere ridotto in briciole. Una sosta a metà strada in quel che si può definire un autogrill asiatico, dove s preparano pietanze semplici ed è possibile lavarsi le mani sotto la scrosciante pioggia.
Un paio di omelette e del jira rice, e si riparte. Ma quando tutto sembra tornare alla normalità, il flusso si blocca. Baccano in lontananza, una processione incessante, affollatissima, di quello che si può definire una ‘Pantheon Race’. Tutti i gruppi religiosi del paese sfilavano contemporaneamente, chi coi loro Dei multicolore, antropomorfi, vestiti, addobbati o semplicemente dipinti, le loro immagini, reliquie e amuleti sacri, Buddisti, Induisti, Cristiani, Musulmani e Giainisti, insieme per chissà quale comune denominatore, una grande dimostrazione di convivenza e fratellanza che però ci sottrae almeno un’altra ora… siamo sfiniti, morti, bagnati e nauseati.
Quello che doveva risolversi con 5 ore di viaggio, ci vede partecipi ad una traversata che si conclude alle 17,00. Andiamo al Crystal Hotel, un nuovo edificio utilizzato dai funzionari ONU, in fondo ad una stradina sterrata su cui scende un flusso idrico tipo torrente. È decente, ci costa 2600 r.n. a notte, lo lasciamo in poco meno di mezz’ora per recarci nel centro, dopo un viaggio snervante necessitavamo di un caffè. Avremmo speso l’impossibile per quel caffè. Ne avevano bisogno. Il Lemure mostrava uno sguardo assente con principio di insofferenza ad ogni tipo di contatto dermico o imprevisto. Teo si muoveva con la solita energica e mastodontica flemma. Io non so. Volevo fumarmi una sigaretta, in tranquillità. Dopo una piccola passeggiata lungo il glaciale lago, osservando i turisti che si accalcavano lungo gl’imbarcaderi nell’attesa di essere caricati e traspiratati verso il centro del lago. Due turiste italiane, abbastanza voluminose, di Bergamo agghindate come due sub, cercavano di salire su una di esse, senza dar scossoni, per non lanciarsi in acqua. Ad un tratto notai con dispiacere quante anemoni lacustri e ninfee giacevano sul molo in attesa di essere gettate via dai braccianti. Le avrei raccolte se non fosse che probabilmente tra quel fogliame avrei potuto trovare qualche insetto mostruoso come sono in questi paesi… Quattro passi e due tibetane mi agganciano cercando di vendermi l’impossibile. L’attrazione era il mio mala di sandalo, acquistato alla fiera dell’artigianato a Milano in uno stand nepalese, particolarmente carino e molto apprezzato in loco… veleggio via. Vorrei sedermi e riposare, idea condivisa dai miei e due compagni. Atterriamo così in un giardino antecedente ad un edifico in legno un po’ western saloon, che si getta su un verdeggiante plateatico a ridosso delle acque color grafite. Qui pace qui. In pochi all’interno, Wi-Fi gratuita e possibilità di fumare al coperto. Tranquilla mezz’ora asciugandoci le piume, finché una richiesta giunta dal tavolo di fianco al nostro, ci ha destati da quel torpore: ‘Ragazzi, avete un accendino?’… Bene, era una ragazza italiana sola, con il suo tablet, capelli castani raccolti e allure da guida turistica. Maglia trekking Annapurna e aria di saperla lunga, lunghissima… Paola è una ragazza genovese, che si definisce trozkyana doc, in Nepal da due mesi circa, insegnante, fiera politicante in loco per organizzare riunioni di partito. Na matta vera! Amante spassionata dell’Annapurna, ci ha intrattenuti sul percorso ideale da compiere per visitare Jomson, Tatotapani, Kaghebeni, Mukhtinat e Mustang… (litania questa, ripetuta più e più volte.) Con lei al nostro fianco si è discusso più e più volte sulla possibilità di risalire la montagna, per sfuggire al maltempo ma, questo comportava la suddetta trafila: corsa in un’agenzia locale per acquistare il biglietto aereo (voi penserete, ma perché non andarci a piedi?) questo per evitare la risalita da Pokhara a Jomson che sarebbe durata un giorno e mezzo (anziché 20 minuti di aereo) giungendo al primo avamposto dotato di aeroporto. In quest’agenzia, avremmo dovuto richiedere due Visa, una turistica ed una semplice, per informare le autorità della nostra partenza verso l’ignoto. Jomson sarebbe stata la prima tappa verso la vetta. Dai suoi racconti sembrava di rivivere un’impresa alla Messner, epica, già in direzione dei 1800 metri. Forse un po’ troppo per Vale, ma la cosa ci incuriosiva. Da li, con mezzi di fortuna verso Tatopani (acqua calda in nepalese), Mukthinat e Mustang. Questo percorso, da lei descritto come imperdibile, era da suddividere tra scarpinate a piedi e autostop. Il tutto senza dimenticare qualche sosta nelle varie case appositamente predisposte e gestite dalla genuina ospitalità della gente del posto. Insomma sembrava tutto così bello e magnifico, ogni foto mostrataci apriva scenari idilliaci, soprattutto perché raccontati da una ragazza che ci era già salita due volte e soprattutto DA SOLA! Rimandiamo la decisione al giorno dopo. Altre cose andavano vagliate, per esempio, il passaggio a Lumbini, il giro a Chitwan, e tutto il resto… Gironzoliamo per la cittadina, annaffiata da una pioggia incessante, la cui superficie increspata del lago sembrava volerne attutire la scrosciante discesa dal cielo.
Paola ci ha chiesto di restare un po’ con noi, e noi ben volentieri l’abbiamo accolta nel nostro micro mondo, anzi, le chiediamo riguardo al suo alloggiamento in albergo, perché certamente prometterà sorprese, e così, ragazzi, veniamo catapultati in un mondo delirante, quello in cui non ti spieghi perché alcune persone si trovino in quel determinato angolo della terra e trapiantano, radicano e sviluppano in essa la loro intera esistenza, in un territorio così vorticoso come solo i paesi d’oriente possono essere. Paola sosta al Monli Lodge, una sorta di angolo incantato, un edificio nascosto da un ristorante in legno che riversa, con il suo ampio ballatoio, su uno splendido giardino. Qui si può sostare a 1000 r.n. a notte, una tripla, carina, accogliente (con un bagno aberrante) gestito da Mama Mala, una bionda occhi azzurri, una buddist-squatter sessantenne, australiana, bella donna, vita tutta da raccontare, energica e simpatica. Per ogni situazione Mama Mala aveva un episodio correlato di ricordi punzecchiati qua e la nella sua esistenza. Fidanzata con un italiano che l’ha mollata, finirà in Nepal per un altro uomo che l’ha convinta ad aprire un’attività, succhiandole tutti i soldi per poi sparire lasciandola nei casini a gestire un albergo in una totale situazione dove l’anarchia aleggiava tutt’intorno, sensazione che si avvertiva dalla strampalata distribuzione delle chiavi al pagamento, alle pulizie… La maîtresse australiana, evidentemente affogava un po’ la sua disperazione (goliardicamente) sorseggiando qualche goccio di whiskey.
Giungono i vespri recando seco la sera, nenie sacre si diffondono nell’aria della tranquilla cittadina che mescola i rumorosi clacson alle Hom Mane Padme Hom che fuoriescono incessantemente da ogni negozio. Paola ci chiede se vogliamo seguire il suo consiglio e ci porta a cena allo Yeti, un ristorante un po’ nascosto nelle retrovie, praticamente impossibile da raggiungere al crepuscolo, in virtù del fatto che a quell’ora tutto il Nepal è al buio. Questo terrazzino è gestito da una famiglia che abita nello stesso stabile e condivide i locali tra zona privata e zona pubblica. Sarà una cena economica, lo ciò lo si evince dai prezzi che leggiamo sul menu. Iniziamo ad ordinare portate tutte parecchio differenti tra loro, guidati dal morso della fame che già da qualche ora si faceva sentire. Una cena luculliana, ottima, gustosa e condita dall’elegante e per nulla fastidiosa presenza dei famigliari, alcuni assopiti negli angoli, altri dediti ai cani dall’aplomb buddista che riposavano tutt’intorno. Buona notte Pokhara.
15 agosto
Ci svegliamo abbastanza presto, la pioggia non cessa neppure per un’istante. Ormai mezzi inzuppati non pensiamo ad altro se non ad acquistare una mantella impermeabile. Paola ci attende al Monli, la raggiungiamo coi bagagli salutando il receptionist del Crystal Hotel, scendo le scale urlando Watashi wa Itaria Ginde (io sono una ragazza italiana, in nipponico) credendo che un nepalese non potesse capire il giapponese… e di tutto punto mi son sentito rispondere: Really, did you speak japanese?… sono diventato bordeaux… Teo era a terra dalle risate… Mama Sue Hellen, come da accordi presi la sera precedente, aveva nascosto le chiavi della nostra camera sotto ad una pila di volantini posti su un tavolino rotondo dinnanzi alla sua camera. Prese le chiavi, compiuto il trasbordo, ci ricongiungiamo con Paola. Una colazione con pancake e miele, un caffè in una veranda in legno all’Himalayan Java (il secondo con questo nome…) durata sino alle 11,00. Oggi visiteremo il Tashi Plkhlal Seattlement (un campo rifugiati tibetani) e il suo rinomato istituto monastico buddista del Pema Ts’al Sakya. Un taxi per questa verde periferia, dove un fiumiciattolo costeggia il perimetro del centro sacro, una salita ripida ma breve, inseguiti da una mandria di capre che ci accompagnano insieme alla nostra ilarità, al policromo e vivace ingresso.
Un tibetano con il volto carta impecorito ci accoglie, nei suoi occhi tutta la rassegnazione di un popolo offeso, orgoglioso e pacifico. Tutto questo era leggibile in pochi centimetri quadrati di viso, la cui pelle color noce, ne riprendeva anche le venature tipiche del suo guscio, così forte e coriaceo. Acquistati i biglietti, dopo pochi metri visitiamo il cortile interno, guardandoci bene dalle scimmiette che saltellano sulle varie piante. Una montagna colorata di legno e cemento, che spicca tra le verdeggianti cime coronate da pesanti nubi, così leggero ma allo stesso tempo austero, ecco il tempio buddista, affacciato su un piazzale in cui si possono trovare anche pareti e canestri per il basket. La scuola e il dormitorio stanno alla sua destra. Entriamo, è l’ora di pausa e i bimbetti vestiti da monaci, con le loro testoline rasate, corrono e si divertono con racchette e palline fatte con elastici e carta, mostrandosi abili calciatori con i loro piedini scalzi e la loro genuinità tipica di chi si vuole divertire. Teo gironzola tutt’intorno studiando le varie sfaccettature che differenziano una classe occidentale da una orientale, gustando i comportamenti così diversi ma pur sempre simili che accomunano il desiderio di svago dei bimbi. Vale gironzola ossessivamente come uno squalo alla ricerca di una preda, ormai la GoPro è l’estensione della sua mano, gli occhi convergono in un unico punto focale, laddove andrà a posarsi l’obiettivo quadrangolare della sua mini camera. Ci dicono che il momento più interessante della giornata, è ovviamente il ritrovo per la preghiera, quello che raggruppa grandi e piccini, che sarà dalle 16,00 in poi. Perciò, mancando qualche ora all’appuntamento, decidiamo di uscire ripercorrendo la stessa salita, ora trasformata in una ripida discesa in cui una piccola cascata riversa i sui fluidi, verso un paio di edifici che ci dicono essere i ristoranti del posto. Bussiamo in una di queste abitazioni che lasciano un po’ perplessi Vale e Teo, ma non c’è alternativa, casa A o casa B? Entriamo in un cortiletto ben tenuto di un’abitazione che è anche un piccolo negozio di alimentari che da sulla strada principale. Una signora indatabile (forse coetanea) intenta nella cura alla sua persona, ci accoglie. Le chiediamo se può cucinare per noi, e lei acconsente. Non parla inglese per cui da quel momento, per i prossimi 45 minuti, sarà un continuo escogitare trucchi e similari attraverso gesti delle mani ciò che volevamo mangiare, ovvero delle patate fritte con un paio di uova strapazzate. Ecco, appunto, sembrerebbe semplice ma in realtà questa ordinazione ci ha visti ondeggiare come delle galline per simulare la cova dell’uovo, rumori da frullatore, abbozzi di disegni finché, grazie a Dio, dal dizionario della Lonley Planet non è fuoriuscita la magica parola phul=uovo… un sospiro di sollievo, ilarità, ripetizione in coro della litania chapati (pane) phul (con gesto della sbattitura a frusta) pani (acqua) alu (patate), con l’aggiunta dell’altra parola magica ‘masakariun’ (sono vegetariano). Ordinazione fatta, ci accomodiamo tra i panni stesi, mutande e sottane, ripulisco con una scopa il pavimento (solo per provare l’ebbrezza di utilizzare una scopa senza il manico, difficilissimo compito di una donna nepalese…) e dopo qualche minuto, appena rincasa la figlia da scuola, ci viene servito il menu. Ottimo, da quella meravigliosa e pittoresca cucina fuoriesce un profumo di fritto e spezie, tra gli scintillanti attrezzi in rame ed ottone tirati a lucido, questa vivace signora, ogni giorno prepara prelibate pietanze per i visitatori (pochi in questa stagione), gestendo l’economia domestica. Salutiamo e sorridiamo per questa esperienza e di nuovo ci ritroviamo sul percorso in salita per il monastero, che ormai sembra un fiume in piena.
Sono le 16,00 e la preghiera è appena iniziata. I bimbetti tutti intorno, avvolti in un mantello purpureo pregano a gran voce, ognuno con la propria cadenza e la propria ritmica, creando una so cacofonia ipnotica e soporifera, tanto che alcuni di loro ciondolano e si addormentano pesantemente, prontamente svegliati solo dalle gomitate dei compagni vicini. Persino un cane entra ed assiste alla preghiera, che dopo un’ora termina in una processione di piccoli monaci con indosso il pan-chen, una sorta di cresta giallo zafferano da cui pendono due lunghe orecchione, portate in maniera un po’ goffa da questi piccoli monaci che scherzano e ridono tra loro durante tutto il corteo. Vale mi passa una pagina di un breviario scritto in tibetano caduto da un piccolo libro posto sulla panca in legno, sono tentato di tenerlo, invece lo ripongo sulla panca. Al termine della parata di uscita, Teo si spara un selfie con la gigantografia del Dalai Lama che troneggia sull’altare.
Che pace, un profumo ed una delicata aria montana ci accompagnano verso la discesa. Hom Mane Padme Hom… Tornando verso il M.H. prendiamo la decisione di non salire sull’Annapurna perché sembra troppo rischiosa l’altitudine per noi, soprattutto perché manchiamo di attrezzatura adeguata e per l’ormai chiara assenza di supporto medico nel caso il nostro cuore non reggesse a quella situazione… Ora, con i nostri biglietti bus per Chitwan e le immagini carpite dai manifesti appesi nell’agenzia per la prenotazione, ci dirigiamo in camera. È sera di nuovo, e un po’ per quella sorta di gratificante reticenza che sottolineare l’ottima scelta della sera precedente, come dei pensionati affezionati al caffè del bar all’angolo, un po’ per solidarietà verso questa famigliola, torniamo allo Yeti, dove Sigari, il figlio più giovane, ci accoglie con tutte le attenzioni riservate ad un corpo diplomatico. Vale ha fame, lo sottolinea negli ultimi metri almeno una decina di volte e così, appena seduti, ha iniziato ad ordinare roba, come se non ci fisse un domani. Abbiam mangiato così tanto e bene che dopo due ore a tavola, con una birra a testa, siamo letteralmente allocati. Quei momo vegetariani (una sorta di ravioli di riso ripieni di verdure), quel palak paneer, quel nan chapati e le polpette di verdure con hamburger di soia sono stati davvero paradisiaci.
Butto gli occhi su dei sacchi in tela per il riso che gentilmente chiedo alla signora se me li può vedere, sono belli, divertenti e colorati. Lei sorridendo mi accontenta. Impariamo il termine nepalese che chiude la serata pughi-yo ovvero ‘basta così’. 2600 r.n. in tutto, per un’abbuffata di 4 persone affamate. Salutiamo la Paola, che l’indomani mattina raggiungerà Kathmandu in aereo per ritrovarsi ad un meeting che tratta politica e sviluppo in area total-red imbracciando falce e martello. Ciao Paola, grazie di tutto! Una velata e spumosa luna brilla dietro le nubi che a tratti la lasciano scoperta. Se non fosse poco prudente avvicinarsi al lago, sarebbe bello vedere l’immagine riflessa. Forse domani ci sarà un po’ di sole, speriamo.
16 agosto
Sveglia. Ore 6,45 un taxi per 250 r.n. ci porta in stazione, troppo presto per pensare, per vedere e per rendersi conto che fino a quell’istante, non avevamo visto la gloria dei cieli. E così, giunti nel piazzale, mentre cercavamo di sorseggiare un disgustoso e caro caffè in attesa della partenza, il vento ci ha donato l’immagine più spettacolare di tutta la vacanza. L’Annapurna splendeva come un colossale iceberg bianco tra le vette di media altezza all’orizzonte, che spettacolo ragazzi, quanto infinitamente piccoli siamo noi esseri di fronte ad una meraviglia simile, fatta di poco colori e dalle forme semplici, rivolte verso il cielo. Quest’immagine, ad oggi, filtrata attraverso l’iride, si è inchiodata nella memoria come se fosse accaduto poco fa. Si parte, ore 7,45 e fino alle 13 non si giunge a destinazione, un calvario su strade che costeggiano burroni, massi che cadono a picco sulle strade creando attese e pericoli inaspettati ma soprattutto preghiere ad ogni sorpasso azzardato.
Arriviamo a Sahura, nella sua stazione bus, una paludosa distesa di fango a circa 5 km dalla cittadina. Una jeep per 250 r.n. ci porta nella via principale (che è anche l’unica). Vale siede davanti insieme a Teo, io nel vano posteriore, all’aperto, tra gli schizzi di fango e le zanzare che mi si attaccano addosso. Arriviamo dopo pochi km al Royal Park Hotel, un altisonante nome a rappresentare quattro capanne in legno all’interno di un giardino presidiato da una decina di oziosi guardiani. Nella reception, l’unica persona desiderosa di lavorare era il proprietario, che ci ha fatti faticare non poco per trattare il prezzo, 3800 r.n. a camera per due notti, inclusa una tazza di caffè. Il parco era vuoto, per cui, avremmo potuto scendere ancora un poco di prezzo. Pazienza. La casupola è molto carina, con veranda e gechi in perenne movimento a caccia di zanzare completamente incuranti degli zampironi e degli incensi accesi.
Il verde giardino costellato di piante e fiori, ci proponeva in tutta la sua lussureggiante bellezza enormi limoni/pompelmi locali chiamati Bogathi, una piccola piscina abbandonata e delle enormi lumache dal guscio a punta, simili a quei corni che si vedevano in vendita nei negozi, ricoperti d’argento. La giornata è soleggiante, per cui la prima cosa da fare è un piccolo bucato, in barba all’umidità. I fili stesi lungo la veranda si intrecciavano come una ragnatela elastica da cui pendeva di tutto, dall’intimo al casual fino alle borse in plastica e gli impermeabili. In pochi minuti quello che sembrava un piccolo lodge adagiato nell’eden era diventato un’appendice di un bazar levantino… Dopo una doccia e qualche sigaretta in letizia, Teo spinge per una passeggiata per scrutare quello che si credeva un villaggio, mentre Vale, al solito, con fini nutrizionali. Ci dirigiamo verso il ‘centro’ dove adocchiamo un bugigattolo adito alla vendita di ‘pacchetti’ per visitare la giungla. Acquisto un casco di banane nano che divoro come se fossero noccioline e insistentemente offro a Teo, che mi manda a quel paese…. Noooo Cazzzzzooooo! Vale non ascolta nemmeno ciò che ci racconta l’organizzatore perché la sua testa, il suo corpo e il suo spirito già anelano un piatto di jira rice… Con 3000 r.n. troviamo questa soluzione, un compromesso tra il mc-giverismo e il controllo dell’esuberanza adrenalinica. Insomma, una sorta di giro a triathlon tra le radure fangose in bici, sfidando le acque color ocra del fiume Rapti, un giro sull’elefante (never ever) nonostante le mille raccomandazione fatte affinché il marabut (l’autista dell’elefante) fosse delicato con l’animale (un supplizio che racconterò poi) e giro a piedi. Già che ci siamo, acquistiamo con 48 ore di anticipo i biglietti per Kathmandu, nel caso sparissero poi per via di qualche festività a noi sconosciuta ma che di solito muove un sacco di persone. È giunto il momento di sfamare il Lemure che inizia a perdere le staffe e alle tre del pomeriggio inghiotte una quantità tale di cibo da stendere un pitone. Io e Teo, un po’ più leggeri, sorseggiamo una coca e mi accorgo che Teo, sembra la trasposizione umana della Maria nell’atto della lacrimazione. Quanto mi fa ridere vederlo sciogliersi come una fetta di luccicante mortadella al sole… io che non mi accorgo del caldo, anzi, ho sempre freddino, mi diverto a vedere Teo in panne, sotto i 30° con 97% di umidità, lo trovo buffo così grande e resistente, capitolare sotto qualche raggio di sole. Due passi verso la sponda opposta dell’unica arteria cittadine e finiamo in un negozio, dove la tentazione di acquistare fa subito sentire.
Il proprietario è simpatico, lancia oggetti a destra e sinistra e riesce persino a far denudare Matteo per infilargli una camicia e dei calzoni in cotone verde. Vale acquista portafogli e incensi ed una camiciola gialla con iscrizioni in nepali, io vado matto invece per quegli oggetti realizzati nel tipico stile Mithila, proprio della regione in cui ci troviamo, nel Terai.
Questi oggetti riproducono scene di vita quotidiana e animali in uno stile molto infantile e giocoso, rappresentando in una varietà cromatica sorprendente, quanto accade tutto intorno. Li trovo belli ed interessanti, oltre che allegri. Ne acquisto uno a forma di asinello color lilla, tutti questi oggetti sostengono una comunità che rientra nel programma Fair-Trade internazionale. Dopo una piccola sosta su un terrazzo umido e malconcio osserviamo i primi pachidermi ondeggiare per le vie diretti ai recinti per il riposo. Quattro ragazzine inglesi si agitano al ritmo di ‘Only girl in the World’ di Rihanna, divertenti. Passeggiamo lunga l’altro lato della via ed incontriamo un falegname. Con i suoi semplici strumenti intaglia il legno, trasformando piccoli ceppi in deliziosi rinoceronti. Teo ne ordina uno chiedendo di lasciarlo abbastanza grezzo e non dipingerlo, facendo incidere il nome ‘Chitwan’ mentre Vale cerca di commissionare una tavola porta candele, grezza, disegnandola pure in 3d nella speranza che capisca meglio ed esegua l’opera senza troppe distrazioni artistiche (auguri), dando lui un anticipo e pregandolo di terminare il tutto per il giorno seguente. Hathi significa elefante e qui di ‘ricordini’ lasciati dai pachidermi per strada ce ne sono parecchi.
Nel Terai, con gli escrementi degli elefanti, fabbricano anche la carta. La via termina in un piazzale sabbioso, dove il fiume curva vorticosamente e riflette i raggi del sole ormai prossimi al tramonto. Uno spettacolo sorprendentemente poetico e rilassante. I pochi turisti osservano lo scorrere del fiume che lentamente lancia le sue onde contro la riva e sembra voler invitare le gazzelle dalla parte opposta ad abbeverarsi.
Poco più vanti ritroviamo le due ragazzone bergamasche, che ci danno di lungo, non vogliono socializzare e questo frustra severamente la nostra centellinata mascolinità. Rientriamo verso il Royal Park, cercando di adocchiare un posticino per la sera. Lungo il percorso si trovano delle carcasse di lunghe e snelle barche utilizzate sul Rapti, che qui chiamano ‘degauud’, simili alle pinasse maliane. Relax, doccia e aspersione sui nostri corpi di litri di Autan, perché nella giungla, le zanzare non fanno prigionieri. Ci rechiamo al Rapti restaurant di nuovo (qui tutto si può chiamare Rapti, o Elephant o Rino…) dove veniamo accolti e coccolati da un’ottima cucina, sotto ad un capanno con pali e bambù, con cucina a vista di fronte a noi. Semplici e deliziose portate con masala tea alla fine, davvero buono, spese 1500 r.n. totale. Rientriamo verso le 22 in camera, mezzi morti, e sul tratto osserviamo un cane che fissa basito una cosa al buio (ovviamente l’illuminazione cittadina non esiste). Puntiamo la torcia del cellulare e davanti a noi una lumaca gigante, grossa come un pompelmo, mezzo chilo di mollusco. Sarebbe interessante raccoglierne uno e portarlo in Italia, ma Teo giustamente mi riporta alla ragione sottolineando che la natura non va modificata e che comunque potrebbe essere una specie magari nociva per le nostre zone. Una volta giunti in camera, prepariamo il piano di autodifesa notturno contro gli insetti. Teo spara l’aria condizionata a palla nella speranza di ibernare con questa primo attacco molte zanzare. Io capitan pyro, accendo zampironi ed incensi all’unisono, sperando di stordirli e Vale, l’ingegnere folle, inzuppa asciugamani per renderli pesanti e sigillare porte ed infissi. Insomma, una task force dopo Desert Storm. Prima di coricarci, un’ultima sigaretta e un paio di partite a carte annapurniane tra me e Teo, intanto un geniale geco, ci da una lezione di intelligenza rettile entrando nel sifone di vetro di una lanterna a cibarsi, come se fosse in un fast food, di insetti, mentre io invece, mi preoccupavo di farlo uscire perché non si bruci.
17 agosto
Alba, albissima, sono le 5,50 e le sveglie suonano come se annunciassero la resurrezione pasquale. Fuori piove a dirotto, che culo, oggi ci aspetta una giornata tutta imprevisti… I vestiti non sono asciugati, Vale indossa la camicia giallo Titty acquistata ieri e dei calzoni color cachi, Teo, tutto impermeabilizzato color silver sembra uno sputnik pronto ad esser sparato nella galassia, mentre io, davvero a corto di vestiti, opto per t-shirt nera, leggins aderenti neri, calzini al ginocchio grigi a righe e un foulard viola annodato sui fianchi, il tutto coperto da un mantello XXXXXL. Ingroppiamo una bicicletta dinnanzi al punto di ritrovo, ci dirigiamo verso l’ingresso al parco Nazionale, distante circa tre chilometri dalla città. Veleggiamo spensierati sotto la pioggerella, nella speranza che balchi. Una volta arrivati ci rendiamo conto che stiamo per sfidare l’Amazzonia. Li dentro ci saranno ragni e bestiacce di ogni tipo, orrori sotto forma di insetti, il tutto incastrati in numero di 4 all’interno di queste minuscole palanchini. Vale si scopre color giallo ittero, la sua maglia sotto la pioggia ha perso colore e creanza, Teo idem è color farina aliena, io mantengo un rispettoso decoro, perché il nero è pur sempre elegante.
Saliamo, partiamo. Il povero animale oscilla annoiato tra il fango, osservo i movimenti del marabut che spero non bistratti l’elefante, ed avanziamo nel cuore della foresta. Nessun animale in vista, ragni penzolano dai rami sotto l’incessante pioggia, una sanguisuga cerca a più riprese di addentare il mento del Lemure incastrato tra le paratie della palanchina e la schiena di Teo che lo schiaccia. Io, dopo oltre mezzora di oscillazione con pendenza verso il suolo, non sento più i genitali, triturati contro un palo di sostegno, ormai ho raggiunto l’estasi, il dolore e il desiderio impellente di far pipi coronano questo giretto in groppa al pachiderma desiderando che finisca il prima possibile… ma ecco, il marabut fa far marcia indietro all’elefante, ci guida in direzione di un non ben identificato segnale, che per loro è indice di presenza della fauna locale… avvistati due cervi dalle lunghe corna… poco più in la un coccodrillo emerge e ci osserva per poi sparire sulla la melmosa acqua… ma ecco il signore degli avvistamenti, un rinoceronte a circa due metri da noi, bruca nascosto sotto ad un alberello. Una sequenza così ben determinata di avvistamenti fa sorger il dubbio che quegli animali siano li perché messi dall’uomo e magari legati… Teo e Vale sostengono di no, io ho i miei dubbi… rientriamo alla base, fradici e stanchi, e non può che mancare uno sguardo agli occhioni tristi dell’elefante, occhi rassegnati e un cenno di saluto con la proboscide, povero animalone.
Montiamo sulla bicicletta, altri tre chilometri tra le sterrate vie di campagna dove le risaie incorniciano di un verde splendente abitazioni dipinte di turchese, un meraviglioso contrasto. Gruppi di bimbetti giocano fuori dalle loro modeste abitazioni e piccoli stagni pluviali accolgono anatroccoli e bufali in diletto. Che meraviglia pedalare in quell’eden, dove le persone che incontri ti sorridono, alcune donne raccolgono il riso sotto al loro cappello conico in paglia, e venditori di tegami in alluminio girano casa per casa con le loro bici stracariche di vettovagliamenti. Arriviamo alla piana dove il fiore rallenta per imbarcarci e dirigerci verso il lato opposto del parco, voluto dal Re negli anni ’70, quando finalmente si sono accorti che di quel passo, tra caccia e trascuratezza, avrebbero perso a breve il loro patrimonio faunistico. A gruppi di due o tre persone massimo, veniamo caricati sulle degauud. Queste esili barche lunghe circa tre metri, sono adatte ad attraversare il fiume. Una manovra di una ventina di minuti e siamo quasi arrivati, quando Vale mi fa notare che un piccolo di coccodrillo nuota alla mia destra… ritiro le mani che essendo aggrappate al bordo, sfiorano di poco l’acqua. Giungiamo dall’altra parte, fango fino alle ginocchia e via per il sentiero che ci porta alla nursery degli elefanti. Che carini, piccoli goffi, così sproporzionati e teneri, adesi alle loro madri che li hanno portati in grembo per 4 lunghi anni. Un micio si adagia dinanzi a noi, il primo che vedo da che siamo arrivati in Nepal, si lascia accarezzare beatamente. Dopo circa un’ora rientriamo allo spiazzo per tornare dall’altra parte, una lunga fila di indigeni e turisti si accalca aspettando il loro turno sostando nel fango. Vale apre lo zaino alla ricerca di qualcosa ed ecco saltar fuori un’enorme rana, subito cerco di spostarla dalla calca umana che l’attornia, ma vengo fermato perché velenosa… pfuuui! Saliamo sulla bagnarola, rientriamo dall’altra parte in condizioni disumane, ma il meglio deve ancora avvenire, ovvero, l’imbarco avviene in una landa melmosa, dove il fango fa da red carpet. Siamo sudici come i cormorani del golfo persico e qui assisto a Teo e Vale che perdono inibizione e vanno a lavarsi in un ruscello, come i dalit indiani durante le abluzioni nel Gange. Da lontano scorgiamo di nuovo le due ragazze italiane che per via del loro peso vengono caricate in coppia sulla barca e che una volta sbarcate, sembrano trasformati in due giganteschi mezzibusti che affiorano nel fango. Ultima pedalata maxi, la più sfiancante, quella del ritorno. Parcheggiate le bici sono le 13, esausti e senza più vestiti di ricambio, nulla di asciutto, optiamo per far lavare gli indumenti in una lavanderia del posto, anche l’intimo (già lavato, ma non asciugato). Pattuiamo il ritiro entro sera, ore 20 circa. Dopo una lunghissima doccia, un’oretta di meritato riposo con pennichella e risveglio tra i soffici raggi di sole che filtrano dalle persiane, usciamo per addentare qualcosa. Solito ristorante, solito menu, con la sorprendente presenza di un eclettico ragazzo che gestisce un’agenzia specializzata in escursioni Fair-style, ovvero senza l’utilizzo di animali, totalmente ecologica e soprattutto gestita con testa. Questo ci fa pensare e soprattutto riflettere su quale malcostume si basa la nostra sfacciata brama di fare o vedere cose senza curarci degli effetti negativi. Rajja, questo ragazzo d’altri tempi, è gentile ed educato, elegante nei modi, un vero nepalese (affronterò successivamente il tema sull’indegnità locale) ed è davvero un piacere confrontarsi con lui, anche se spesso insiste sul tema animali, alla domanda se fosse vegetariano, lui risponde di no. Mi fa sorridere il fatto di essere rimproverato da un non vegetariano riguardo al maltrattamento e alle sofferenze animali, quando quest’anno, e proprio in questo mese, festeggio il 18 anniversario di liberazione da questa malsana abitudine… Rajja resta comunque un elemento postivi in quel contesto così strano dove operano personaggi dediti a lucro e non alla cura del patrimonio faunistico. Rientriamo in camera, partita a carte annapurniane… Kaghebeni, Mustang, Mukhtinat… ci riportano alla memoria l’amica Paola. Dopo un paio d’ore andiamo finalmente a ritirare il bucato. Teo e Vale vengono chiamati nel retro per identificare i capi, in quanto essendo tre uomini, al titolare non tornavano i conti. Secondo lui molti dei capi ‘intimi’ non potevano essere da uomo… solo perché avevo un paio di slip bordate di rosa, un paio tigrate e due paia di leggins? uff… noiosi…. Ceniamo di nuovo allo stesso ristorante, innamorati di quella capanna fatta di bambù e terra battuta, ottimo jira rice, birretta e ritiriamo gli oggetti lignei ordinati dal falegname, ovvero il rino di legno e il porta candele che ovviamente è stato artisticamente interpretato dallo scultore che ha prodotto un’immancabile dettaglio rinocerontesco, ovvero il corno.
Roknos significa basta e per qualsiasi vacanza si rispetti oltre gli italici confini, è bene tale esclamazione nella lingua del paese ospite. Questo diktat in lingua indigena, si rivela sempre utile, salvifico, sortisce l’effetto sorpresa e lascia sbalorditi gli interlocutori, giovando alla propria incolumità. Il popolo nepalese è stato una piacevole ed inaspettata sorpresa, totalmente differente da ciò che si poteva immaginare prima della partenza, avendo soltanto presente il generis indiano. Sono molto più fieri e meno arrendevoli, anche durante le contrattazioni che spesso finiscono in un nulla di fatto proprio perché non retrocedono di un solo passo dalle loro posizioni.
Tutto avviene sotto occhi imperturbabili e sguardi fissi, qualsiasi tipo di discussione non viene mai trattata con superficialità e sono di poche, anzi pochissime parole. Spesso inducono in soggezione per i lunghi e meditativi silenzi. Non a caso, il reggimento più importante e tenace della Royal Navy è composto dai Gurkha, temibili guerrieri selezionati ancor oggi in loco presso una base inglese, tra le moltissime aspiranti reclute, dopo aver percorso chilometri e chilometri in salita con cesti carichi di mattoni. Osservando i vari atteggiamenti, quando si è in Nepal, decade ogni certezza legata ai ruoli professionali maschili e femminili; infatti, moltissime donne giovani lavorano nei campi e nell’edilizia, mentre gli uomini cucinano, cuciono magliette, ricamano e fanno a maglia. È l’unico paese in Asia che riconosce diritti ai gay e nonostante sia il paese più povero del continente, la sua infelice situazione non la si avverte tra la gente. Povero è lo Stato, ma di cibo ce n’è per tutti. Molte religioni convivono pacificamente e spesso sfilano insieme in cortei lunghissimi per le varie città. Draghi, mostri e scene delittuose animano la fantasia dei nepalesi, tanto da celebrare una terribile festa, nel mese di ottobre, chiamata Daishan, dove il sangue scorre a fiume e a pagarne le spese sono dei poveri buoi, decapitati… che spettacolo terribile.
18 agosto
Ore 8.00 ci apprestiamo a lasciare questo villaggio tanto amato, dove il tempo sembra essersi davvero impossessato dei nostri pensieri, tutto sembra distante, irreale e talvolta paralizzato nelle nostre soste, mentre si sorseggia una bevanda, mentre si scruta il cielo. Noi irrimediabilmente persi, risucchiati nella variegata natura che coi i suoi suoni, gli odori e le luci, sembra averci rapiti, Subiamo quello che lo psicologo di gruppo definisce il vivere ‘mindfullness’, ovvero vivere senza pensare al domani, vivere il momento, la consapevolezza che esiste l’attimo di secondo e null’altro. Saranno mica state i monachelli buddisti ad impartirci questa lezione di vita?
Colazione nello stesso posto, stesso tavolo, stessi cani, per un pancake, che divoriamo famelicamente. Rajja, l’eclettico sahurino, ci viene incontro per salutarci. Lui davvero una perla di Labuan in quell’angolo del Cretaceo. Quando si allontana, lo seguo e mi reco nella sua agenzia facendogli dono di un cellulare di scorta che avevo con me, essendo il suo malridotto e in pessimo stato.
Un risciò stile tuc tuc ci carica per l’ultima traversata nella paludosa area circostante, diretti allo stesso piazzale sterrato dove due giorni addietro siamo sbarcati. Un bus a tocchi e legato a spago ci attende per la partenza. 9,30 e lo sgangherato mezzo parte, tra buche, burroni, ripide, curve a gomito e brusche frenate, per non parlare dei sorpassi, dopo una sosta in un punto di ristoro alquanto aberrante, giungiamo alla periferia di Kathmandu.
Il rottame ci lascia per strada, in una via adesa a Thamel, sono le 15,30 del pomeriggio e non piove. Troppo stanchi per continuare in qualsiasi altra direzione. Testa o croce, andiamo al Pilgrims Guest House, dove mendicando un pochino, strappiamo una tripla a 2000 r.n. con tanto di scelta della stanza. Lasciamo gli zaini e ci gettiamo in Thamel street, ciondoliamo alla ricerca di qualcosa di carino da acquistare e come per magia, torniamo tutti abbastanza carichi, tranne Vale, che ha deciso di acquistare tutto alla fine…). Acquisto una statua di pietra di Anuman, che mi viene venduta credendo fosse di terracotta, una targhetta in pietra incisa e ci fermiamo da uno smaltatore di targhe in metallo per ordinarne un paio (da ritirare l’ultimo giorno). cucchiai di bronzo e le prime terrecotte nella Pottery Square di Kathmandu, coronano l’asinata finale. Quello si che è davvero un posto che mi mette l’acquolina… trovarmici dentro equivale ad un pic nic del conte Dracula al centro trasfusionale… Qualche goccia ci costringe a tornare verso l’albergo, ci facciamo strada cercando di riconoscere i negozietti, tutti molto simili tra loro, i piccoli templi e locandine votive. Passiamo dinnanzi al Dio del dente, una sorta di ammasso informe coperto di monete inchiodate, utile a chi, con problemi odontoiatrici, non trova pace se non trapassando una moneta con un chiodo ed un martello addosso alla vituperata statua… Nell’attesa, in quell’angolo di paradiso che è quel giardino del nostro hotel, infestato solamente dalla pruriginosa figura del responsabile ordinazioni, che viscidamente, come un eunuco bizantino, insistente chiedendo se era nostro desiderio bere qualcosa. Osserviamo quello strano rituale che li vede quotidianamente riempire e svuotare la fontana al centro del dehor… Seduti ad un tavolo, mentre inghiotto biscotti burrosi acquistati nella pasticceria vicino all’albergo, (dove per riconoscere dei dolci alla frutta ho dovuto lottare con api e vespe, per vedermi poi servire il tutto in carta di giornale riciclata), mentre Vale impreca contro la videocamera che si inceppa e Teo alle prese con una consulenza psicologica a qualche paziente italiano a cui parla con giusto una manciata di ore di fuso orario. In quel momento conosciamo Marta, una bella romagnola verace, tutta ricci e sorrisi, di quelle ragazze che hanno il sole negli occhi. Da subito ci sta simpatica e chiediamo se vuole stare qualche ora con noi. Lei si trova in Nepal da sola, qualche piccola noia famigliare da lasciarsi alle spalle e tanta voglia di disperdere ad alte quote malumori quotidiani, convinta ad intraprendere sport estremi per una decina di giorni per poi recarsi a Phuket, in Thailandia a rilassarsi. Scherziamo un po’ su tutto, e una volta raggiunta la camera ci diamo appuntamento per la sera. Vele trova un posticino molto carino, interamente ristrutturato in stile europeo, il Places, prepara solo piatti veg, con un Wi-Fi velocissimo e giochi di società. Un piatto di momo, un’insalata e dello Jegermaister, una cena assolutamente no sense, ma piacevole e divertente, anche se per nulla economica, tutto per 2700 r.n… Dopo una giornata così non resta che desiderare di sbatterci a letto, mezzi morti, non prima di aver salutato la bella romagnola. In a camera per caso accendo la tv, una telenovela indiana ci regala una mezz’ora di sonore e grasse risate, ricca di personaggi assurdi, obesi cleptomani, gitane ubriacone e marajà allampanati. Good night moon.
19 agosto
Risveglio, colazione, scroscione di pioggia, per 700 r.n. saliamo su un taxi diretti a Bakhtapur, che dicono essere la più bella città del Nepal. Gioiello dei re Malla, non lontana da Kathmandu, ma piacevolmente assopita e rilassata, con ritmi un po’ più provinciali. Bakhtapur possiede un cuore privato, un’anima gentile e protetta da un valico d’ingresso che ha la sola prerogativa di spennare ai turisti ben 1500 r.n. (per una validità di 4 giorni), porgendo ai nostri occhi un corredo artistico da lasciare letteralmente sbalorditi. Appetito, fame e desiderio di goderci un po’ di quella nostalgica allure da città inchiodata nel passato. La piazza ci accoglie nel suo manto color ocra, costellata di bellissimi edifici in mattone rosso e legno intagliato, vecchie sedi principesche ora adibite a ristoranti e guest-house. Lo Shiva guest house ha due location, una in piazza (tutto esaurito) ed una appena di fronte al valico di ingresso della medesima. Ci adagiamo li, 5° piano senza ascensore, bella camera, poca luce ma uno splendido balcone su un cortile interno vista case indigene, costellate di uccellacci neri gracchianti, milioni, tantissimi, e tutti appollaiati sulle sfortunate terrazze, atte a raccogliere le sue deiezioni. Passeggiamo per questa meravigliosa città, nei momenti in cui il tempo lo permette, acquistiamo cd e doniamo qualche dentifricio ai bimbetti che ci rincorrono, felici per qualche istante, ci sorridono e in men che non si dica, fuggono come lepri a rivenderli ai negozianti vicino. Paola, la genovese trozkyana, ci ha consigliato di non perdere il Marco Polo, una locanda stretta su due piani, all’angolo con la Durbar (locale) che ci ha definito come unico ed imperdibile. Il posto era davvero allucinante, non una tazza che non fosse sbeccata, le posate sembravano ripescate dal fondale marino, il proprietario con una verve da distruggere qualsiasi poesia, lascia spazio soltanto a delle bevande ustionanti, così, solo per incenerire qualche microbo… Prima tappa alla tanto agognata Pottery sq., cuore pulsante della creatività manuale dei bakthapurini, la terracotta. La si raggiunge dopo aver percorso qualche centinaio di metri in discesa, lungo alcune vie in cui tranquilli negozianti espongono le stesse merci vendute in tutto il paese, ma senza l’assillante nenia dei marpioni di Thamel. Pottey è molto piccola e se devo essere sincero, ci ha anche un po’ delusi. Vele è rapito dalla sua GoPro e si aggira come un cobra strisciante a filmare enormi cilindri di molta che fuoriescono dalle presse, danzatori che mescolano con bastoni delle enormi ruote di pietra su cui vengono posati pezzi di terracotta che verranno poi modellati a mano, ovvero a tornio, come fossero dei moais dervisci. Un’immensa fucina a cielo aperto, una tettoia sotto la quale vengo posti le innumerevoli creazioni appena essiccate al flebile sole, ricoperte di sabbia e poi cotte in questo rudimentale forno più simile a una pira di Pashumpatinat, che altro. Teo si aggira fumante, di tanto in tanto adocchia qualcosa che sembra rapire la sua curiosità, che riesce a tenere a freno giustificando l’eccessivo peso di ogni singolo elemento. Io non mi faccio, come al solito, nessuno scrupolo e come se avessi 4 paia di mani, inizio a prendere oggetti in terracotta. Amo questo materiale, è una droga, insieme alla paglia… Risalendo lungo le viuzze umide, notiamo che in questa città, in prossimità dell’ingresso di ogni casa è possibile vedere incastrato nel pavimento, un fiorellino intagliato nel marmo, su cui, in un rituale delicato e simpatico, ogni nepalese appone un po’ di polvere colorata e qualche petalo… Questa curiosa usanza fa si che al primo intagliatore, sentiamo la necessità di acquistarne uno per casa… Poco più avanti, in un negozio d’argento, acquisto un orecchino a mezzaluna detto ‘tashiquò’, carino, anche se non era quello che volevo; cercavo un orecchino a bottone che le donne anziane locali indossano nella parte alta dell’orecchio… ma sembra non riuscire a spiegarmi. Tutte le donne di una certa età qui lo indossano, e durante uno dei miei timidi avvicinamenti per chiedere ad una signora il nome di quell’oggetto, ho incontrato l’unica eccentrica creatura che nell’ordine mi ha fatto prima battere le mani per 5 minuti consecutivi, e poi mi ha estorto delle banconote, senza permettermi di risolvere il mio quesito. Abbandono l’idea… Arriva la sera, già al crepuscolo tutto si trasforma magicamente in qualcosa che sappiamo essere anacronistico e irreale, ovvero, l’immagine della città che disperde i suoi colori in questa vellutata ed umida cortina buia, dove soltanto la luce fioca di qualche candela fluttua dalle finestre. Cena allo Shiva Guest House I. Sono le nove di sera e sembrano le due di notte. Quello che prima era un vivace centro costellato di ristoranti suonatori di strani strumenti, ora è diventando qualcos’altro, una buia e medioevale città dove i guerrieri ghurka presidiano gli ormai chiusi portoni del palazzo reale, le portantine ripongono i principi nei loro palazzi e le stelle brillano in cielo come chicchi di riso gettati su un drappo di velluto blu. In questa fresca e limpida serata dove l’ululato dei cani selvatici dona un’aria un poco angusta, riscopriamo sensazioni perse in un passato che non tornerà più. Siamo piombati nel XVIII secolo.
20 agosto
Sono ormai due ore che una cantilena interrotta soltanto da pochi minuti di pausa, tra un corteo e l’altro, che torturano le nostre orecchie. Teo fuma sul balcone, svegliato dal nostro pesante russare e dal fracasso creato dal passaggio di questi distinti corpi bandistici che sfilano per la città, alternandosi, vestiti con colori differenti, tra l’indifferenza dei passanti. Sono comunque le 6 della magnana. Ci si prepara, Vale è sempre l’ultimo, ama dormire ed io amo torturarlo durante la lunga agonia (sua) assolutamente non definibile come soft-wake-up. Oggi andremo fuoripista, al tempio di Changu Narayan, una località molto famosa, dispersa tra i monti, a circa una decina di chilometri da Bakhtapur, sito è anch’esso, patrimonio dell’UNESCO. Saluta la scalinata, l’ingresso al complesso non è per nulla imperdibile, ma il suo interno è davvero interessante. Un enorme uccello sacro, il Garuda in bronzo, è avvolto da fumi di incenso e canti femminili. Stanno celebrando un battesimo, proprio in quel luogo sacro dove un principe reale, molti secoli addietro, convinse sua madre, la regina, a non gettarsi sulla pira paterna per celebrare quel macabro rito indù del Sati, ovvero l’auto cremazione sulla pira del proprio marito defunto. Il figlio alla fine riuscì a convincerla e in quel luogo sorse un tempio molto bello. Qualche ora spesa gironzolando tra le verande e le varie aree sacre, poi di ritorno. A Bakhtapur, come in qualsiasi altra città nepalese, ci sono le gradinate che si gettano nel fiume, triste luogo in cui si celebrano le abluzioni e i riti funebri. A piedi, dirigendoci (malgrado il parere contrario di Teo e Vale) verso i ram Ghat, una donna sorretta da una famigliare, urla il suo dolore verso il cielo, portando entrambe le mani sul cuore. Una volta scorte in lontananza le lugubri gradinate nascoste tra i canneti, non abbiamo avuto il coraggio. Pranzo in un ex-padiglione reale, il Thaumadi Thole, davvero bello, spendiamo 600 r.n. Vale si gusta un jira rice, io e Teo due the. Visita al tempio sacro di Thaleju, stupendo, ma il cui ingresso nel sancta sanctorum è vietato ai non indù. Circumnavighiamo il Naga Pokhari, una melmosa vasca da cui sbuca un enorme cobra in bronzo, elegante ed austero, pronto a lanciarsi contro gli spiriti maligni, che si erge verso il cielo. Tutt’intorno capolavori in creta rossa e legno. Tutto ciò che hanno costruito è davvero impressionante, la bellezza e la meticolosità, ma soprattutto il modo in cui si sono conservati questi capolavori lignei. All’uscita incrociamo una venditrice di Jaju Dahu (Re degli yogourt) una specialità bakhtapurina, ne prendo un bicchierino, latte di yak fermentato dolce. Una prelibatezza. Dopo essere ritornati in albergo (io con un po’ di magone, causa avvistamento di due anelli stupendi che non ho comprato per l’esorbitante prezzo propostomi). Teo e Vale alla perenne ricerca dei loro manoscritti tibetani, doccia, sistemazione di fretta prima che i ristoranti chiudano all’imbrunire: nei pochi minuti spesi sul balcone, constatiamo quanti corvi si annidino sulle terrazze della città, un crocevia di neri e gracchianti uccellacci, con i loro occhi perlacei sempre affamati, rivolti verso un macabro ignoto, quello delle carogne da cui attingere cibo. Un’unica colomba bianca svolazza nei cieli, persa tra le nubi plumbee, sembra un angelo…andiamo al Nemasté. Una location carina, su una piazza da cui provengono i melodiosi canti religiosi, una brezza attraversa la grande finestra e ci consola, mentre osserviamo i nostri vicini di tavolo, due strani nipponici tutti tatuati che si compiacciono di aver acquistato enormi coltelli alla Rambo. Questi due loschi individui, simili a personaggi della Yakuza, attirano spesso la nostra attenzione, distraendoci dall’enorme ritardo… Tutt’intorno una luce fioca illuminava i gioielli appesi alle pareti, un mio irresistibile desiderio di indossarli tutti è stato prontamente castrato da Teo, che, restituendomi l’immagine del Mago G della Galbusera, mi ha fatto sorridere. Parliamo ora del servizio. Ordiniamo da bere, il tutto arriva quando ormai le nostre gole sono secche come le alture del Gobi spazzate dal vento, i bicchieri non sono proprio minimamente nello standard ‘deuxieme monde’ per cui ne chiediamo altri in sostituzione. Probabilmente qualcosa nel retro cucina è andato storto, ci vengono recapitati altri bicchieri tutti sbeccati… A quel punto escono di corsa (per modo di dire) e rientrano con un sacchetto pieno di bicchieri appena acquistati che ci vengono lanciati sul tavolo ancora con l’etichetta del prezzo attaccata… lascia perdere, cerchiamo di arrangiarci calandoci direttamente in gola i liquidi, che schiumano come in una lavatrice anni ’50. Il più arguto, Teo, decide di fare un colletto coi tovagliolini di carta tutt’intorno alla bottiglietta della coca cola (ricaricata) per non adagiare le sue labbra sul bordo. La cena comunque si rivela meravigliosa, ottime portate, piacevole serata, prima di esser lanciati fuori dal locale pochi minuti prima delle 21.00, quando il gran black out avrebbe gettato la città nel medioevo. Quei pochi minuti risultavano preziosi per i ristoratori e i bar per mettere in sicurezza e chiudere i loro locali, oltre che ai turisti (nonostante non si possa temere alcunché in Nepal) per aggirarci nelle tenebrose vie bakhtapurine.
21 agosto
Ieri sera prima di addormentarci ho sfidato Teo a carte, che mostrano i paesaggi nepalesi, quelle immagini di Kaghebeni, Mustang, Muktinath… Vale è rimasto invece a fare il suo solito gioco delle microsim, ovvero, dopo averne comprate altre 2, ora cercava di ottimizzare spazi e memorie libere, scaricando filmatini, utilizzando quel poco di Wi-Fi che giungeva sino al nostro piano… Ognuno perso nel proprio delirio. La sveglia delle 7.15 è stata anticipata solo dal solito cerimoniale delle bande. In circolo, stonati come se anziché bimbi ci fossero scimmiette, per almeno due ore deliziavano il risveglio di tutti gli abitanti. I palazzi in mattoni bagnati si mostravano in tutta la loro funeralesca e cimiteriale aurea, completata appunto, dalla tristezza musicale. Colazione al barettino di sotto, tre ustionanti Nescafe serviti in luride tazze, dalla sorridente proprietaria che cerca di assecondare ogni richiesta dietro al bancone del suo delizioso localino due metri per due. Insieme al caffè, che prepara con premurosa attenzione, cercando di simulare anche soffici creme create sbattendo lo zucchero, ci serve biscotti confezionati al cioccolato e al cocco… Oggi andremo a Patan, Laliputh, la ‘città della bellezza’, come amano chiamarla i nepalesi, antica capitale di qualche secolo precedente a Katmandu, ora trasformata a sobborgo della stessa di cui si trova a farne parte. Mezz’ora di viaggio sulla Middle Highway e siamo nel centro della città, anch’essa con la sua Durbar square, ovvero la solita piazza del Palazzo. Visitiamo i meravigliosi padiglioni del Mul Chock, incorniciati di legno scuro, il Museo Nazionale di Patan, completamente restaurato dal Governo Austriaco e reso davvero unico nel suo genere, dove una luce incantata filtra dalle finestre intagliate lungo tutte le balconate interne. Passeggiamo per Patan, incrociamo degli intagliatori di legno da cui Teo si fa realizzare un piccolo Buddah personalizzato, Vale filma avidamente tutto, in ogni posizione possibile. Passeggiando per la città si vedono cantieri in cui lavorano le donne, trasportano mattoni nelle ceste, mentre gli uomini cuciono a macchina per strada. Davvero differente dal nostro modo di distribuire il lavoro. Esili donne stracariche di pesantissimi mattoni risalgono su pericolanti scale in bambù, anche fino a 4 piani… Una di esse mi strappa il cuore, mi avvicino, le dono ciò che trovo in tasca, troppo poco per quell’espressione di grata beatitudine che traspare dai suoi occhi, nel ringraziarmi. Mi sorride generosamente e ciò mi basta per le ore successive. Colti all’improvviso da un fulmineo acquazzone, sostiamo all’interno di un tempio in cui un caffè/bar molto spartano, ci invita a sederci. Mentre decidiamo cosa prendere, siamo catturati da un elegante signore che sosta con noi, scrutando lo scorrere della vita oltre il portone principale. Osserva, oltre ogni parete, qualcosa che non potremmo mai capire. Indossa come tutti gli uomini del posto il classico cappello chiamato Dhaka topi o Nepali topi, una sorta di cappello simile a quello utilizzato dai nostri operatori alimentari o dagli imbianchini, ma in tessuti colorati e in fantasie meravigliose. il suo nome pare derivi da Dakka, la capitale del Bangladesh. Chiedo ai compagni cosa vogliono e mi dirigo vergo il bar, da cui sorprendentemente fuoriesce a tutto volume November Rain – Guns N’ Roses. Riconosco il pezzo e il ragazzino un po’ metallaro mi sorride a 32 denti. Il locale è un po’ angusto, claustrofobico simile ad una disco londinese, in netto contrasto con le vivaci statue delle divinità poste nel cortile che fanno smorfie quasi non apprezzassero le scelte musicali. Sorseggiamo il caffè, che ci viene servito con dei cuscini su cui sederci. Terminata la pioggia ad insieme l’ultimo sorso della nera bevanda, restituisco la cortesia e gli dono un portafogli in vinil-gum che ho da quando son ragazzino, e che penso a lui possa piacere. Mi ringrazia, lo saluto oscillando la zampa da destra a sinistra, mentre lui le congiunge le mani come se stesse pregando.Andiamo. Da li in poi, tutto un acquisto, da piatti in foglia giganti a mala, cucchiai, cappelli di molte forge e colori e chi più ne ha, più ne metta… Giungiamo di nuovo all’ingresso della piazza dove siam costretta cambiare o prelevare per poter rientrare a Bhaktapur. Rientrati in città, mi catapulto con Teo in Pottery per acquistare un po di terracottiglia, statuette di creta e una lampada a forma di pesce, come quelle viste al Marco Polo, spingendolo poi pigramente verso il luogo del mio interesse, cerco di contrattare per acquistare uno dei due anelli bronzei visti i giorno prima… Ne prendo uno, che mi costta un salasso… Cena al Nemaste, stesso posto, stesso tavolo, stesse problematiche. Stavolta seduti di fianco a due australiani d.o.c, biondi come pannocchie che scolano le loro birre in lindi bicchieri. I nostri giungono di nuovo sbeccati e malridotti, evidentemente le riserve di bicchieri intonsi son già finite… Chiediamo delle salevifiche cannucce, ‘strass’ in inglese, recepiscono il messaggio e spariscono. Si ripalesa ansimante il ragazzino del giorno prima con almeno un centinaio di cannucce, acquistate a posta per noi, pensavo forse che siamo dei rompiballe, ma non così, per il personale il problema non sussister, perché nel loro quotidiano, certi problemi non si pongono…. di nuovo ottima cena, sane risate e una stanchezza che ci obbiga a strisciare lungo il selciato bagnato dall’ultima pioggia verso l’albergo.
22 agosto
Alba. l’ultima cantilenante processione ci saluta dalle vette sottostanti, mentre una leggera pioggerella accarezza le tegole dei tetti di fianco al nostro balocconi. Terminati i bagagli e gli innumerevoli gadget e souvenir, discendiamo le 4 rampe di scale, con gli zaini ormai divenuti monolitici cargo. Ultimo caffè nel baritoni, come dire, di sotto. La signora ci saluta con il suo smagliante e positivo sorriso, intenta come al solito a mescolare velocemente degli anzi di caffè insieme a dello zucchero per trasformarli in una soffice e vellutata crema. Ammiro di lei come riesca a taglieare un angolo della confezione del latte, che qui viene venduto come in europa si usa confezionare le mozzarelle, ovvero, in un quadratino di plastica e di come riesca a farlo restare appoggiato al bancone senza rovesciarlo. Mistero. Pochi passi più in la, prima di imboccare la via che ci ha condotti all’ingresso della città proibita, Teo contratta il prezzo di una corsa in taxi fino a Kathmandu. In 45 minuti siamo di nuovo nella capitale, al Pilgrims G. h. adagiati in un’angusta camera con piccolo balcone, ma solo per una notte, perché le altre le passeremo nella camera deluxe, tutto per 2000 r.n.! Procediamo in direzione del Palazzo Reale, un obrobio anni ’70 che manderebbe fuori di capo il Palladio, ma prima, sosta al piacevole e rilassante Himalaian Java, nella via principale, quella che conduce al R.P., Vale poco prima, intercetta un Apple center ed è deciso a far riparare lo schermo del suo telefonino, scelta che comunque gli fa risparmiare parecchi soldi rispetto alla stessa operazione fatta in italia. Un’oretta trascorsa in letizia, appollaiati su delle sedie comode, con ventilatore e un pancake, un succo e un po di lieve musica di sotttofondo… Il palazzo reale ci attende in tutta la sua brutale e feroce bruttezza, isolato dalla città da una recinzione in ferro molto alta, simile a quella in uso per i leoni, questo edificio credo sia la dimostrazione terrena che i soldi non portino il buongusto. Non abbiamo termini descrivere la desolante tristezza che ti si scaglia addosso, vuoi perché vissuto come un luogo della memoria, dai filo monarchici locali, vuoi perché in esso leoni impagliati, specchi ed odore di polvere condiscono un susseguirsi di oggetti desueti quel il tubo catodico del Re, la stanza privata del re, la camera da letto e le stanze degli ospiti per non parlare della mortuaria sala del trono. In ultimo, una passeggiata in un semiabbandonato giardino, che circondava un palazzo (ora demolito) teatro dell’efferata strage perpetrata dal principe ereditario Dipenda, che imboccato un mitra, ha falcidiato tutta la sua famiglia. C’è da dire che la cosa più curiosa di tutto questo macabro teatrino sono le esopressione dei visitatori nepalesi, che indicano a bocca spalancata i cartelli che riportano i segni lasciati dai proiettili che hanno trapassato i regali personaggi. Inceneriti i resti della famiglia e passati a setaccio a Pasumpatinat, il trono è stato retto per qualche anno ancora da Gyanendra, re dalle dubbie capacità, autocrate di poca lungimiranza che è riuscito a metter fine ad una secolare dinastia…. All’uscita, una boccata di ossigeno, ed una tappa per recuperare le targhe fatte preparare da un plate-maker locale. Ottima cena al Froyo, un ristoranti a sud di Thame, con un giardino lastricato, oggetti d’arredo in legno semplici ma carini, ed una cucina squisita. Nello stesso luogo, è possibile degustare caffè Lavazza e qualche dolce nella pasticceria che versa sia sulla strada che sul giardino. Finalmente stasera ho mangiato un palak paneer coi baffi, insieme a un naan chapati e del riso bianco. Passeggiata del rientro, nel nostro incatato giardino, un the e poi a nanna… Dopo una giornata così, dove la doccia è stata un miraggio lontano. Il fango alle ginocchia e la pulizia diventa una chimera irrinunciabile…
23 agosto
Davvero, svegliarsi con gli odori della cucina in camera non è un granché, se poi subito dopo la sosta in quel tugurio di bagno decorato con piastrelle tutte differenti, ti da il buongiorno. I nostri tre letti, umidicci, sono talmente vicini che non c’è spazio per nulla tra di essi, ed ai piedi dei rispettivi c’è si e no 80 centimetri di spazio. Una prigione.. Per fortuna oggi ci doneranno la camera delude! Colazione alla Beckery di ieri sera, per compensare la pruriginosa notte, poi per 300 r.n. un taxi ci porterà a Bodnath, dove si trova lo stupa più grande di tutta l’Asia, polo buddista di notevole importanza. Varcato l’ingresso, ci sia accorge che magicamente tutto ruota intorno a questo edificio, ma non metaforicamente, anzi, ti accorgi che la direzione oraria è quasi magicamente indotta dalle ruote sacre che girano e coronano tutto il perimetro, i monaci osservanti, i pellegrini, i negozi stessi hanno un modo di affacciarsi alla piazza che ti induce in quella direzione. Qui oltre agli incensi che inondano la piazza volti il tuo sguardo e capisce che è molti di più di quel che sembra. Vale è intenzionato a prendere un testo buddista, lo cerca così insistentemente da giorni che alla prima libreria posta al secondo piano, facciamo una sosta per scandagliare scaffali e pertugi, alla ricerca del libro che ci parli, che ci comunichi qualcosa. tutti tre lo troviamo, 350 r.n. cadauno, , ed insieme ad esso trovo una mala di pietra dura che comunicatomi il prezzo decido di acquistarlo, per lasciarlo poi alla cassa quando scopro che il prezzo era inteso a ‘perlina’ e nel mala ce ne sono ben 108… circumnavighiamo lo stupa, saliamo su di esso, dove una ragnatela di lung-ta (le bandierine colorate che significano ‘cavalli volanti) tesse ed ingarbugliate tra esse, spettacolo policromo vibrante e in perenne movimento, una lode e grazie al vento, alle montagne. I monaci stanno sulle gradinate intorno, accarezzano il capo dei passanti, e tra essi anche il nostro, e della sagomata di parole spese sopra la nostra nuca, capisco solo ‘muktinath’… io e Teo ce la ridiamo, Kaghebeni, Mustang, Muktinath… Varcato l’ingresso di un piccolo edificio un’enorme ruota girevole ci spinge verso la parte buia dove ci attende un minuscolo monaco nano che rischia di essere travolto dalla monumentale stazza di Teo, che con i suoi due metri di altezza, viene visto come lo yeti da quelle parti… Il mini monaco dona a Vale un bracciale rosso, che annoda intorno al suo polso ed impartisce lui una benedizione. Di fronte alla rampa principale, un gruppo di operai gettano gesso in polvere all’interno di una vasca contenente acqua e mescolano energicamente quello che sarà il nuovo manto cromatico dello stupa. Risaliamo in auto dove il paziente autista ci fa notare che abbiamo tardato. Ripartiamo lungo una stradina in discesa, dove macellai espongono mosche e carne, finche prima di imboccare di nuovo la strada del ritorno, Vale fa fermare l’auto, ha visto un negoziato dove riparano e fabbricano oggetti in rame, li nota parti di una vecchia, smonta, di quelle che i pellegrini reggono in mano mentre recitano ‘Om mani padme hum’. Si innamora della ruota, anche se semidistrutta e ne contratta il prezzo e la sistemazione. Lascia un acconto, domani pomeriggio ritornerà a prendere. Un pazzo. Uno squilibrato di mente, come se a Thamel non ci fossero. Rientrando a Kathmandu, scendiamo al Kumati cinema, dove acquistiamo tre biglietti per lo spettacolo serale. Proietteranno Mardaani, una sorta di poliziesco. Albergo, Vale non sta un granché. forse un forte attacco intestinale, mi propongo per uscire ed andare in farmacia, mentre ancora me la ride per la telenovela che stavamo guardando io e Teo, dove una rotonda cleptomane vestita tra la Moira Orfei style e la Marzotto, si aggira per la casa della sua migliore amica cercando di derubarla… dei matti! Dopo la farmacia, sfuggendo al solito Monsoon time delle 18.00 somministro la pozione magica a Vale che però non ne vuole sapere di uscire per recarsi in un cinema. Andiamo io e Teo, cinema molto bello, spettacolo in nepalese, ma comunque comprensibile, in mezzo alle famiglie indigene che mangiano di tutto, e soprattutto non si fanno problemi a portare i figli piccoli a vedere uno spettacolo che in Italia sarebbe vietato ai minori di 14 anni, anche se la cosa più illegale che si consumava tra quelle pareti insonorizzate era l’abuso di aria condizionata… Alla fine del primo tempo, ibernati, non abbiamo più il coraggio di rientrare. Fuori buio pesto, pioggia e non troviamo un taxi. A piedi, tra i marciapiedi sconnessi andiamo alla ricerca di un posto dove nutrirci, e trovandoci nella città nuova, ci si ferma da Pizza Hat… non male come idea… pulizia, ordine e una gustosa pizza dopo oltre 15 giorni di astinenza e devozione al dio riso… Rientriamo finalmente al P.G.H. dove ci attende vale. Due ragazzi tedeschi, Stephan e Tina, due punkettoni simpaticissimi, vedendo la t-shirt dei Lacrimosa indossata da Teo, si gettano a capofitto. Sono due comiche, i loro racconti spesi tra cane e rocambolesche e assurde strategie di sopravvivenza nel loro incanta mondo rendono la serata una macchietta. Sono in Nepal per lavoro, importano oggetti producono capi di abbigliamento da importare e rivendere nel loro negozio di Jena, in Germania. Il racconto di Tina che si trascina il fidanzato nell’aeroporto di Nuova Dehli che ha ingerito un panetto di cioccolato per timore della polizia è stato epocale… per non parlare poi del soggiorno a Bangkok… due pirla loro!
24 agosto
Risvegli. Ore 6. Si sente già Kathmandu vibrare oltre le finestre esagonali, pulsare come un cuore in preda ad un attacco di tachicardia, qualche profumo filtra dalla finestra del bagno posta poco sopra alla cucina dove vengono preparate le colazioni. Piove. Diluvia, come sempre a quest’ora. Usciamo al galoppo, una colazione alla Beckery parte il round per la città, alla ricerca di non si sa bene cosa, io deliro e parlo di secchielli, terracotta, statue e casette in legno, come se il mio zaino fosse vuoto… Teo magliette, e bandierine, Vale non ancora ben deciso su cosa. Sosta al Delices Cafe, un balcone raggiungibile solo da una pericolante scala a chiocciola, dove si ammirano strani individui aggirarsi per le brulicanti vie, trasportati si qui molti anni or sono dall’occidente. Alle 16.30 non voglio mancare al nostro appuntamento, un taxi per Bodnath per prelevare il suo tanto amato e desiderato Mane (la ruota girevole) e di ritorno, emozionantissimi… Ceniamo al Mandab (?????). Stephan e Tina ci attendo bussano alla porta ma talmente stanchi da non sentirli… bolliti.
25 agosto
Ultimo giorno. Ultimo round. Io ho la nausea da shopping, Teo pure, invece Vale no, perché per tutta la vacanza ha acquistato ben poco, ed è così che si consuma il teatro dell’assurdo. un entra ed esce dai negozi, sempre gli stessi, convinti di non averli ancora vistato. desiderava un corso in bronzo, ma chi glielo spiegava ai negozianti che l’individuo è privo di memoria fotografica? chi? loro lo hanno visto entrare più volte chiedendo la stessa cosa. loro lo hanno guardato allibiti come se li stesse prendendo in giro. loro, in particolare una donna (raro trovare una) è fin caduta dalla scala, come nei migliori cartoon giapponesi. No trumbet, urlavano i negozianti ancor prima che il piccolo lord entrasse chiedendo, Excuse me, … No turbe. No trumbet… Notrumbeeeeet! Un delirio, che non ha fatto altro che aumentare i conati. Intanto la pioggia cade incessantemente, soffice, vaporizzata e rende la fangose strade ancor meno praticabile. Dopo circa 4 ore spese a ciondolare lungo le vie, non ne possiamo più, e sia io che Teo molliamo Vale, orami a pezzi. In mano reggo un secchiello in alluminio, dei vasi in terracotta ed una pianta, il famoso Bogatì, il mega melone visto a Sahura… L’unico sforzo che riesco ancora a compiere per portare ad un signore un telefonino che mi ero portato dall’Italia, uno degli ultimi da donare al popolo nepalese. Mi ringrazia regalandomi una collana ed una conchiglia rivestita di metallo. Rientriamo al P.G.H. inseguiti come al solito dal viscido responsabile del Giardino, che come un mandarino alla corte di pechino, ci riempie di saluti e ammiccamenti, si contorce in flessuose e serpentesche prominenti che nemmeno il più astuto eunuco persiano, purché consumiamo qualcosa. no no no…. la sua viscida e flautata voce non va che aumentare i conati (da souvenir) che mi torcono le viscere. Ceniamo di nuovo da Pizza Hut, l’unico posto dove riusciamo a calcolare in anticipo il conto che ci verrà consegnato, potendo così risparmiare per il taxi l’indomani.
Fredda e buia la città ci saluta. il suono dei pneimatici che valicano le immense pozzanghere lanciando schizzi d’acqua lungo i bordi, annunciano la nostra partenza. Un aeroporto spoglio, in mattoni, dove una nevrotica fila spinge verso la direzione sbagliata Annunci imprecisi sulla collocazione dei gate la dimezzano e ne fanno due tronconi che si incrociano, per divenire poi un’altra fila ancora. Addio Nepal, terra magica.
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