Un paese dalla millenaria storia, questa terra è da sempre conosciuta con nomi differenti, da tutti i popoli entrati in contatto con questo paese a cavallo dei secoli, tutti ricchi di significato; Sinhala, Eelam, Salike, Simoundou, il persiano Serendip, con la sua leggendaria storia dei tre principi sapienti, Heladiva, Tâmraparnî, il paese dalle foglie di rame, da cui la traslitterazione greco-romana di Taprobane, Silan, Ceilao, in lusitano, Ceylon dagli anglo-olandesi ed infine dal 1972 Sri Lanka, l’isola splendente.
Noi, come figli del saggio Giaffar di Serendip, basandoci sin dall’inizio sulla pura casualità, principio basilare della leggiadra ‘serendipità’, affidammo, nel gennaio 2015 la scelta della meta alle mani infarinate di un pizzaiolo, affinché estraesse il nome della meta da un bicchiere in cui competevano illogicamente mete come Cambogia, Iran, Turchia, Spagna e persino la Siberia.
La formazione è così composta: Ezio, Olivia ‘Randy’, Teo, detto ‘Gù’, Vito Valerio Lemure (centurione con armi cinetiche appresso) ed io, Paolo.
10 agosto
Sono le 6,45 e il sottofondo di sveglie diligentemente sistemate, scuote la torrida ed umida notte, proprio come un labrador appena riemerso dall’acqua. La giornata di ieri è stata sole cocente e preparazione valigie, tutto senza un logico criterio. La serata ‘svuotafrigorifero’ come da annuale rito, quest’anno non ha raccolto molte adesioni, tanto da ripiegare su un gelato per salutare gli amici e di riderci sopra. Le pale del ventilatore appena issato sul soffitto, han reso le mie ossa fragili come grissini, ingranaggi di cristallo che scricchiolano rumorosamente. Il cerchio alla testa sembra un hula-hoop di piombo chiodato, barcollo fino al mobiletto dei farmaci, cerco il moment e realizzo poco dopo che la scatola giace da 24 ore sul fondo dello zaino vacanza. La testa mi fa troppo male per permettermi di shakerarla alla ricerca dell’alchemica pozione, per cui agguanto una confezione di analgesico omeopatico gentilmente acquistato da Pia e prego che funzioni, un po’ titubante, ma ci spero. Saluto mamma e Sue, che ieri ha compiuto un anno, ripassando dinanzi alla casa abbandonata dove ieri ho cercato invano di tender una trappola ad un cane abbandonato. Non trovo il cane, il cibo è rimasto li… Vale passa a prendermi in auto e scrutando tra le sue orbite rosso rubino, ha tutta l’aria di quello che ha litigato tutta notte con i bagagli, cercando di misurare ogni millimetro e pesando ogni grammo di tutta la sua abnorme attrezzatura fotografica, si perché a questo giro, se ne vedranno delle belle. Tremo. Alle nove siamo a casa sua, alle 9,20 decide di portare Pongo per fare l’ultimo giretto al parco, alle 9,36 non è ancora rientrato. Mi incendio come un fuoco d’artificio, gli telefono e mentre lo vedo placido rientrare gli barrisco l’orario di partenza in faccia: 9,50! Corriamo in stazione, lui coi suoi tre carapaci che arranca, io che volutamente non lo aiuto. Odio i ritardi, i ritardatari, ed è bene che prenda coscienza dei ritmi, non solo suoi. Teo, che preventivamente ha cercato di anticipare il ritardo già stimato sul Lemure, ci attende placido, adagiato sui crocs color casi, i suoi pantaloni caki, la sua t-shirt caki… Sembra uno scampato al raduno classe ’60 fronte anti vietcong! Saliamo sul treno di corsa, quasi appesi come dei velisti alla porta! Scherzo, è solo per rendere l’immagine delle porte che chiudono ad un millimetro dai nostri zaini. Malpensa, coda, imbarco ed estrazioni delle batterie al litio dal bagaglio di stiva, cerco di trattenere la penna dell’hostess griffata Emirates, ma la rivuole. Mega controllo serratissimo, ultima sigaretta 12,45 all’aria aperta, via sull’aereo più grande che abbiamo mai visto, un Emirates da 500 posti. Appena ci sistemiamo, chiedo subito una penna, proprio perché non ne ho una e mi risulta impossibile redigere un racconto senza di essa. Una carinissima italiana ne dona una.
Al risveglio, scopriamo che Teo, è riuscito a farsi amica l’hostess e racimolare un intero sacco di gadget che comprende: penna, mazzo di carte, set da barba e dentifricio, ma tutto in triplice copia… Senza dimenticare i sandwich che ad intervalli ben scanditi ha richiesto, desideroso di ‘tappare qualche carie’ come ama lui definire quella sua sfrenata bulimia.
‘Io che amo solo te’ titolo di Modugno, e del libro che sto leggendo. Milena me lo ha regalato al mio compleanno, descrivendolo come libro simpatico e molto leggero, parere condiviso da tutte le persone a cui l’ho prestato. Rido subito dall’inizio, promette bene. Ci sono giorni in cui l’unica sveglia è il cuore, e così, aprendo gli occhi e scopro che siamo a Dubai.
Sono ormai più di 10 anni dall’ultima volta in cui sono stato qui. Ci stiracchiamo, su questo mega aereo privo dei soliti rassicuranti afrori da viaggio, perché poco prima di atterrare, un’agguerrita hostess dall’aria folle, con 2 deodoranti per mano, ha percorso le corsie a tutta velocità per gasarci come scarafaggi nascosti sotto gli stipiti delle porte. Alle 2,45 di notte siamo di nuovo su un grattacielo volante diretti a Colombo, aeroporto di Bandaranaike. Ore 8,45 atterraggio, siamo tutti molto emozionati; Teo ha bellamente dichiarato di avere mangiato una dozzina di sandwich gentilmente offerti dalla compagnia aerea, Vale, al ritiro bagagli, si accorge di aver dimenticato sull’aereo due stecche di sigarette e subito scheggia in direzione di un’operatrice tutta impettita ai piedi di una lunghissima scala mobile, in attesa di esaudire ogni sorta di sfinente richiesta da parte di passeggeri che non fanno altro che tediarla per qualsiasi cosa. Testa compresa. Ritiriamo i bagagli e nella galleria commerciale, quella in cui dovrebbero esserci negozietti e duty free, ma che in realtà sembra di essere in una corsia di Mediaworld, dove lavatrici, forni elettrici, ventilatori sono il regalo più ambito da portare alle famiglie, da parte dei parenti che rientrano dall’estero. Usciamo, li dovrebbe esserci Ezio ad attenderci da almeno mezz’ora, ma al suo posto troviamo un cingalese con il cartello ribaltato sottosopra ma su cui è scritto ‘Mr. Ezio Andronio’. Di lui nessuna traccia, ma avvicinandoci al lacchè, veniamo avvisati del suo allontanamento per espletare necessità tabagiste.
Arriva, abbracci e saluti, l’aria e umida e calda, e lui da parigino qual è ormai da anni, è vestito come io nemmeno vado al lavoro. Bello e preciso, bucolico, camicia a scacchi e calzoni caki, mentre noi diamo sfoggio del peggio che si possa indossare, come se già conoscessimo un poco la situazione… Seduti su questo van color nero, dal soffitto tutto impunturato di bordeaux lucido, osservo i compagni di viaggio: Teo mastica qualcosa con le mani appoggiate sull’enorme protuberanza che è la sua pancia, Ezio volteggia le dita intorno al suo ciuffo fashion e spara cazzate divertenti in continuazione, entrambi incastrati con le loro chilometriche gambe in quella vettura, che seppur grande, è a misura di cingalese. Vale a bocca aperta ronfa dopo aver osservato che qualsiasi tipo di ripresa era impossibile vista la pioggia scrosciante. Kandy, tre ore e andremo nella penultima capitale dello Sri Lanka. Piove. Il clima è molto autunnale, e dopo aver circumnavigato il lago centrale, una vascona rettangolare con anatre ed iguane giganti, approdiamo in un centro commerciale. Il bazar raccoglie molte attività, tra cui quella della compagnia telefonica nazionale Dialog, che ci vende per poche rupie 4 sim il cui tempo di installazione ci sottrae 2 ore di vacanza. Il nome Sri Lanka significa ‘isola splendente’, ma la gente del posto sintetizza in Lanka, isola, che suona molto bene. Ha una ventina di milioni di abitanti, dall’aria molto tranquilla e completamente diversi da quello che mentalmente ci si può immaginare, proiettando ricordi sulla vicina India. Troviamo alloggio al Swiss View Residence, in una collina ripidissima, sulla salita ci si accorge che il van arranca. La vista è interessante, da questa cameretta in cui siamo stipati; sui nostri letti galleggiano due masse di tessuti riavvolti di tende antizanzare, culle per acari, una parete in vetro un po’ malconcia e torbida, rende il paesaggio fuori ancor più cupo. Ormai il pomeriggio avanza verso un crepuscolo equatoriale, parecchio in anticipo.
Dopo una massaggiata per rimettere i muscoli in una posizione non più da ominide, sostiamo in un minimarket, dove acqua e biscotti sono quanto di più impellente per la colazione di domattina. Quest’anno, avremo anche una bella novità: la caffettiera da viaggio elettrica. Una vera chicca, anzi, una coccola incommensurabile che grazie alla zia Titty, che ci ha fatto dono di due confezioni caffè Bonomi, scadute ad aprile, eviteremo di svegliarci annusando quella cloaca mundis di Nescafé in tazza 40 cl. Cena in un ristorante islamico lercio, ma così zozzo che l’unico motivo che ci trattiene non è solo il suolo appiccicoso, ma bensì il fatto che sia il miglior posto dove mangiare il kottu, il Kandyan Muslim Hotel in Dalada Vidiya. Il kottu è uno dei cibi di strada più popolari dello Sri Lanka. È composto da pezzi di paratha fritti saltato con spezie, carni e/o verdure per i vegetariani. Il kottu è in poche parole il piatto nazionale, l’hamburger dello Sri Lanka, qualcosa di così gustoso e impossibile da resistere! Il kottu viene spesso servito con una ciotola di salsa al curry per inumidire e aggiungere sapore in più a questa piadina fritta. Per rilassare anima e corpo, ci arrampichiamo in un locale un po’ coloniale, rivestito in legno scuro, dove facciamo il balletto degli sgabelli, prima di accomodarci, per non cadere in una zona d’ombra frutto di una lampadina che la lanciato gli ultimi flebili bagliori, fulminata. Caffè americano, tre birre Lyon fanno lievitare il conto come se avessimo ordinato nettare degli dei e caviale… Notte divertente, tra parassiti, rumori e battute al fulmicotone.
11 agosto
Risveglio, una blatta impavida ha terminato la corsa subito dopo aver passato la porta, forse fermata da un distratto passante. Uccellacci piroettano nel cielo cupo e grigio, dove nemmeno le nubi, anch’esse grigie, riescono a sdrammatizzare la piatta tavolozza fumé. Dov’è il paradiso tropicale?
Si esce in direzione lago, uno specchio d’acqua che riesce a rifrangere la poca luce solare che filtra tra le nubi cariche e pronte ad esplodere da un momento all’altro, ricreando quell’eterno ciclo continuo che da millenni rende fertile il pianeta terra. Questo grosso lago è come una lavagna in ardesia circondata da una cornice bianca su sui il vento e una variegata fauna, lasciano delicati segni come un cancellino appena passato sulla lastra nera. Varani, tartarughe borchiate simili a strumenti bellici, paperette e ibis, convivono tutti sullo stesso ramo che emerge come uno scheletro di dinosauro dall’acqua lievemente increspata. Ce la prendiamo comoda, camminiamo in direzione sud-est fino al limite in cui la corniche incrocia la via della torre dell’orologio, di retaggio coloniale (ogni paese ospitante bandiera union jack o gigli borbonici, ne ha almeno uno in ogni città…). Prima esperienza in bus, una sorta di parallelepipedo dagli angoli smussati, con le pareti simili alle scocche dei radiotrasmettitori anni ’70, in metallo originariamente lucido. Saliamo, io e Vale di dimensioni simili gli autoctoni, ci adagiamo tra i visi sorridenti, mentre per Teo ed Ezy l’incastro è qualcosa di più complicato. Sistemare le loro spropositate aree, ma soprattutto la loro altezza svettante che sfida il tetto del bus, a creare qualche problema. Venti rupie a testa e scendiamo al Peradenya Botanic Garden, un angolo di Sri Lanka già utilizzato ai tempi del re Wickramabahu III nel XIV secolo e poi recuperato nel 1821 da Sir Alexander Moon. Qui, specie botaniche e animali creano in una sorta di biosfera circondata dalla città. Prima di entrare, un arguto venditore riesce a venderci tre collanine in granatina che acquistiamo e apponiamo chi al collo e chi al polso, dando inizio così a quello che solitamente si trasforma nella sindrome da acquisto compulsivo.
La granatina fa bene al cuore (ricordo questa citazione letta da qualche parte). Tutti noi entriamo per perderci nella sua sconfinata bellezza. Vale, il reporter ha deciso di sostare e riprendere con la sua ‘giocattoli’ (la macchina da presa n.d.r.) gli enormi pipistrelli grossi come rottweiler planare sulla sua testa, mentre noi altri, un po’ sfidando la pioggerella tropicale ed un po’ aspergendo la nostra stupidità adolescenziale tra le frasche, cabotiamo la spianata circolare color verde smeraldo. Un vialone di palme centenarie termina nei pressi di un bosco di baniani secolari le cui radici affondano ed emergono dalla terra come mani immerse nella pasta. Una passeggiata di un paio d’ore fino al ponte di ferro, dove Ezy sfila disinibitamente davanti agli occhioni bianchi delle coppiette cingalesi mano nella mano, Teo impavidamente arranca sul pontile facendolo oscillare nel vuoto, sopra ad uno strapiombo di una ventina di metri. Mi fanno ridere. Cerco di intercettare il Lemure con WhatsApp, scrivo, scrivo e scrivo, ma Vale non risponde. Quando però arriva a capire di essere andato fuori rotta, portando la mia pazienza ai limiti, mi manda una mappa del punto in cui si è fermato ad attenderci. Mi arrabbio, grugnisco ed inveisco, ma quando lo vedo placido con le sue baliste riposte nelle custodie, le sue sarisse ripiegate e la ‘giocattoli’ in mano, mi genera un sussulto di tenerezza. Horchid House. Una graziosa serra in cui una moltitudine di orchidee reali, policrome si arrampicano nell’aria come aracnidi carnevaleschi, ci collocano fuori dallo spazio temporale. Una piccola sosta nel caffè del parco ammirando il sole si alterna alla pioggia, e mentre ordiniamo una tazza di the cingalese, usufruiamo dei bagni che, per nostra sorpresa, sono e saranno i bagni più puliti, profumati e minimal di tutta la vacanza… (mi sento di scommetterci, nonostante sia solo il primo giorno). Durante il break, Ezy da sfogo alla sua sconfinata simpatia, mentre Teo si allena su di lui utilizzandolo come test umano, destreggiando la sua innata dote da psicologo. Vale ingoia voracemente riso e chiacchiera con il personale prima, e il titolare poi dei suoi armamenti, che destano sempre enorme curiosità. Io trovo un ombrello portatile fucsia dimenticato da qualche turista. Lo agguanto. Ad ognuno la sua parte.
All’uscita lo stesso percorso a ritroso, bus per la Clock Tower, ri-circumnavighiamo il lago per poi giungere sul lato sud, opposto al nostro hotel, per assistere ad uno spettacolo musicale di danza, che si terrà al nella sede della Croce Rossa, in cui Vale, tra sorrisi e devota curiosità, issa la sua attrezzatura e filma come un grande regista tutto lo spettacolo. Dopo questa divertente rappresentazione in un edificio che certamente ha visto il fuoco neroniano diverse volte, ci dirigiamo verso il cuore pulsante della religiosità cingalese un po’ nauseati da ori, maschere e nenie accompagnate da scampanellii vertiginosi. Il Sri Dalada Maligawa, il luogo più sacro di tutta la città, anzi, di tutto il paese. Questo edificio è un’elegante ed enorme pagoda circondata da più giri di mura, e la leggenda vuole che alla morte di Buddah, Arahat Khema affidò il canino sinistro dell’illuminato al re Brahmadatte, dopo che il corpo venne cremato a Kusinara, in India. Ogni re poteva definirsi tale solo se questo dente rientrava sotto la sua giurisprudenza. Questo edificio ha resistito persino alla scellerata furia portoghese, che convinti di averlo sottratto (in realtà hanno rubato un falso dente) lo hanno cannoneggiato. Un meraviglioso complesso circondato da un fossato su cui flebili riflessi luminosi riscaldano quel crepuscolo giunto così in anticipo. Vale non può entrare a causa di quell’attrezzatura così complessa e vistosa, per cui si accuccia fuori. Io Teo ed Ezio varchiamo la soglia, ci fermiamo subito dopo la prima rampa di scale bloccati dall’acustica di tamburi e gong che circondano un altare dorato. Dopo circa mezz’ora e senza che nulla accadesse, ci spostiamo al piano superiore per vedere se ci fosse qualcosa che in realtà abbiamo bellamente ignorato. In realtà ci sembrava davvero strano essere nel tempio più famoso del paese solo in tre escludendo i suonatori, nell’unica ora in cui veniva esposto il sacro cimelio. Infatti, le tre oche, giunte al piano superiore, si sono accodate al biscione umano che si appresta paziente alla visita. Tre pirla. Tutto ciò è però servito a studiare il ritmico battere sui tamburi. Punto. Una passeggiata al crepuscolo nella corte esterna dove è possibile passare in una sorta di magica serra in cui un migliaio di lumini ad olio brillano come se fosse un convivio di lucciole in un prato estivo. Their name liveth for evere more. Percorso lungo le mura perimetrali e siamo tutti insieme, sulle nostre scarpe con un crampo da fame, condiviso. Poco più avanti, nella medesima piazza, un edificio coloniale riadattato a ristorante ci rifocilla. L’Empire, che tra una birra e il meritato relax, Ezio pronuncia la fatidica massima: ‘viva le prostitute, almeno quelle son sincere’. Adoriamo la sua genuina spontaneità talmudica. Insomma, cena semplice con club sandwich e rivisitato localmente. Dopo un paio d’ore gattoniamo alla luce fioca per il bordo lago cercando di non infilarcisi dentro. Iguane e testuggini giganti non si vedono più al buio, ma si possono sentire piccoli pluff nell’acqua, forse loro o forse qualche altra specie primitiva che popola il lago Bagambara.
12 agosto
Si parte con l’ET bus diretti ad Anuradhapura passando per Dambulla, quella che sarà la cittadina ospitante. Anuradhapura. Ci arriviamo dopo tre ore, un sole cocente a picco sulle capocce e attrezzatura fotografica da colossal. Scaricati in un piazzale davvero poco invitante di fronte all’ingresso al Jetavanaramaya Daboga, un’immensa mammella in mattoni sdraiata al cielo, alta 122 metri, costruita nel terzo secolo dopo Cristo da re Mahasena. Cabotiamo il suo perimetro a piedi scalzi, e senza nemmeno i calzini. L’impresa è davvero difficile, ma non impossibile, se saltelli come suricata malgascio da una zona d’ombra all’altra, cercando di evitare il sole che è pressoché allo zenit. Ezia, innata scuolina, ha un paio di calzini intonsi, magari pure in filo di Scozia, mentre noi altri poveri plebei siamo condannati ai carboni ardenti. Una sofferenza da inquisizione medioevale, ma questo è solo l’inizio. Proseguendo lungo la spianata costellata da colonne, gradinate e gruppi di scimmie che si dilettano coi cani randagi, siamo di fronte al Sri Maha Bodhi, l’albero più sacro, antico e famoso di tutto il mondo buddista, e non solo, visto che al cospetto dell’albero originale (di cui lui è talea) il Siddhartha Gautama stava meditando quando ottenne il bodhi (illuminazione) e i conseguenti Nirvāṇa e la buddità. Fu portato appunto in forma di talea, attraverso una processione sacra ad Anuradhapura da Theri Sangamitta, figlia dell’imperatore indiano Asoka nel 288 a. C. e qui piantata, nel parco di Mahameghavana per volere del re Devanampiyatissa. È impressionante vedere come la popolazione, sua così devota a questo albero di ficus che fuoriesce da una struttura in mattoni crudì antica.
Processioni, preghiere e un’interminabile nenia che si incrocia con inebrianti fumi d’incenso, sistri e campanelli riescano magicamente a distrarci da l’avverso e spietato clima. Raccolgo quatto quatto qualche foglia dell’albero più antico del mondo, tra gli sguardi delle devote anime pie in preghiera. Le sottraggo in realtà ad uno spazzino che ne ammonticchia agli angoli, seguito da un altro che li sposta in un cestino, praticamente fungo da netturbino in un recinto sacro. Girare nelle nostre condizioni, a piedi scalzi, diventa sempre più faticoso e questo accorcia i tempi di permanenza. Ultima tappa un museo per il cui ingresso vengono richiesti 30 dollari. Rifiutiamo questo improponibile furto. ET bus, cotti a puntino, pronti per le due ore di traballante viaggio di ritorno per venire poi gettati su uno stradone (o il cardo o il decumano, insomma, uno dei due da cui Dambulla è attraversata) nei pressi dell’hotel Lihaini Village, una villona addormentata nel verde, con tanto di piscina. Sogniamo immersioni vespertine ai raggi di luna e grilli che canticchiano una serenata monotona. La piscina è fuori uso, svuotata a causa di un guasto e in men che non si dica, i sogni si sgretolano insieme alle ultime forze. Camere, due, una al pian terreno, la nostra e l’altra al piano superiore, quella di Teo e Ezy. Dal parterre osserviamo come se il cuore fosse stato trafitto da un’alabarda, la bellissima piscina a forma di fagiolo, che come un’orbita vuota, fissa la galassia… Ceniamo da Samana, un ristorante con terrazza coperta di fronte all’albergo insieme a coppiette che si accomodano portandosi appresso taniche d’acqua da due litri, e a passanti che prelevano cibi da consumare a casa, arrivando a gruppi di tre su uno scooter. Poco più in là, due ragazzi francesi si mantengono a debita distanza..
13 agosto
Sigirya – the Lyon Rock, questa sarà la meta di oggi. Questo sito non molto distante da Dambulla, ci tenta da giorni e complice la piacevole giornata, dal clima gentile (almeno parrebbe) ci fa decidere di raggiungere la rocca con due tuc tuc. Dopo poco più di un’ora, sfrecciando attraverso la foresta tropicale costellata di venditori di ‘singaranga’ le pannocchie lessate che fan saltare l’acquolina a terra al Lemure (che per tutto il tragitto sbava con lingua pendula simile a Pongo, con a testa fuori dal finestrino) avvistiamo Sigirya.
Uno sperone roccioso, non proprio semplice da percorrere, lo si vede da lontano e ci si chiede, strada facendo, di come sia maturata l’insana idea di costruire un palazzo del genere così in alto. Per raggiungere l’ingresso c’è un vialone costeggiato da qualche insignificante rudere. Una donna davanti a noi ci ipnotizza con le sue villosissime gambe, come se ad avvolgere i suoi polpacci ci fossero due scimmie avviluppate. Sigirya in pratica è un antico palazzo reale, costruito durante il regno di re Kasyapa nel V° secolo dopo Cristo, a quasi 400 metri di altezza. Prima rampa in salita vertiginosa su una scala di ferro stracolma di turisti. Ezio intona nell’Aria’ di Marcella Bella… si respira curaçao… Nell’ariaaaa… Almeno siamo in ombra. Sfiancati arriviamo al Corridoio degli Specchi, una sorta di Penthouse dell’antichità, dipinto sulle pareti levigate, dove bellissime fanciulle a seno scoperto, eccitavano la fantasia dei passati visitatori, tanto da render nota la famosa iscrizione di molti secoli addietro che cita così: … le dame che indossano catene d’oro sul petto, mi ammaliano; da quando le ho viste, queste splendide dame, il cielo mi sembra meno bello… (Davvero una nobile declaration d’amour). Giunti alla prima spianata, il sole brucia così da farci rimpiangere un po’ di protezione solare. Tutto intorno è di un verde accecante in netto contrasto con un cielo limpido, compatto e dai toni decisi. L’ultima rampa ha come ingresso due enormi zampe leonine, che un tempo introducevano all’ingresso del palazzo attraverso le di esse fauci. Sulla parete a cui si attacca la scala in metallo, enormi favi di api pericolosissime (utilizzate come armi di difesa in passato) ronzano come avvoltoi, avvertendo con il loro echeggiante ronzio, il desiderio di non essere disturbate. Panico. Che brividi, anni fa, un gesto troppo leggero da parte di un turista ha generato un caos, che la calca umana e lo spavento hanno trasformato in una mezza catastrofe. Arriviamo in alto, altissimo. Due soli piccoli alberi ad accogliere una vagonata di turisti di ogni sorta, tra cui un francese, a detta di Ezio ‘pas mal’ e volteggiando tra i veli, si lascia fotografare, come novella Semiramide, disposto a tutto pur di raggiungere i suoi scopi. Le risate. Il povero fotografo francese cade. Si rialza e tra noi si scatena un sequel di battute. Restiamo all’ombra di quell’unico albero sulla rocca, sciolti. Osservo silente i miei compagni, dall’alto del mondo, colto da vena riflessiva e questo ciò che vedo: Ezy passa le sue mani nei capelli, terminando il rito con un volteggio dell’indice intorno al ciuffo, lamentandosi di non aver seco le forcine. Teo nel medesimo istante, ma con un gesto più morbido, si passa il dorso della mano, più precisamente, quel lembo di pelle tra l’indice e il medio, sulla fronte perlata di sudore, per asciugarla. Vale volteggia gli occhi perso nell’intorno secolare, come imprigionato in cielo, mi chiedo cosa pensi… In ogni caso meglio non addentrarsi nelle menti altrui. Discesa a più riprese… la mia gatta è ancora li… non parla ma dice si… nell’aaaaria… Si respira curaçao… nell’ariaaaaa… Spero solo che non bussi un’uomo adesso… mi comporterei come non vorrei… L’ingresso a questo sito è costato al nostro personale erario, 30 dollari, ma insieme concordiamo, ben spesi. Saliamo di nuovo in tuc tuc (nome che devia dal motore a due tempi di questo velocipede)… e questo lo scopro con piacere dopo essermelo chiesto dal primo giorno in cui ci son salito a Bangkok, anni addietro.
Il primo è approccio con la città è molto strano, ha tutta l’aria di essere un paesotto disabitato ma che in realtà ospita circa 70.000 abitanti. Pranziamo in una villetta a pochi metri dalla strada principale, con riso, birra e una grande macedonia dolcissima, in cui mi accorgo che la frutta è davvero saporita. Sulla strada principale, perpendicolare alla via dove alloggiamo, c’è il Tempio d’Oro, un’enorme costruzione con un pacchianissimo Buddah dorato, il Rajama Viharaya, che si affaccia sulla Kandy – Jaffna Hwy. Un bel laghetto alla sua destra circondato da un polveroso piazzale di terra battura color rosso Roland Garros, ingresso di quello che sono le famose grotte rupestri. Teo e Vale ci aspettano seduti nel parcheggio, mentre io ed Ezy, sfidando la calura pomeridiana, ci incamminiamo per prelevare e/o cambiare la valuta. Percorriamo almeno un tre chilometri a piedi lungo la trafficata statale. Sembriamo due alieni tra i clacson e i fumi di scarico. Quasi me la faccio addosso dalle risate. Un demonio, finché giunti alla terza filiale, l’unica al momento autorizzata a tale procedura, da il meglio di sé. Una snervante attesa, tempi da Matusa e un’aria condizionata polare danno il via a un teatrino che poco ci manca mi fa espletare le mie deiezioni in loco, trattenute sin a quel momento. Non riesco nemmeno a firmare il cedolino di cambio dai brividi di freddo e dalle risate alternate ad acrobatici accavallamenti delle gambe, nel vano tentativo di esondare. Altri tre chilometri stessa situazione, ma riscoprendo però il piacere del caldo sole. Saliamo lungo le rocce scoscese per giungere le grotte, un po’ sfiancati e per nulla entusiasti, visto le premesse del circense Buddah. Invece, la sorpresa è notevole. Costruite ed abitate nel primo millennio dopo Cristo, sono una piacevole scoperta, completamente diverse dal suo terrificante ingresso simil parco giochi cinese. Non sono molte, ma ben conservate. Una dozzina in totale poste su un lato della montagna che accoglie un tramonto dai colori del tutto simili al melograno maturo. Qualche scimmia scorrazza tra le scarpe lasciate ammassate all’ingresso. Davvero un magic moment immortalato con dovizia da Vale, che per le riprese non manca di agitare anche un cordone agganciato al pendulo di un enorme campana, che suonando richiama attenzione su di sé. La strada dal tempio all’albergo decidiamo di farla a piedi, altri chilometri in cui ci gratifichiamo con succo di cocco, accettato e sezionato in loco da una signora che maneggia il machete come se fosse una foglia scacciamosche.
Di fronte al L.H. in Kandalama road, nel medesimo ristorantino spartano della sera precedente, dove cucinano il kottu talmente bene che torniamo desiderosi di divorarlo. Va inoltre ricordata la prima esperienza con la lanka meat, quella che alla vista potrebbe sembrare carne stufata e cucinata come lo stracotto d’asina, ma che assaggio (dopo essermi fatto giurare su tutti i Buddah celesti, che si tratta di vegetali) restandone colpito. Buonissima, gustosa ed al tempo stesso, esotica, grazie a quel pizzico in più di spezie. Adoro! Tornati in camera, ordiniamo birre che scoliamo seduti ad un tavolo mentre discutiamo sul programma del giorno successivo. Intorno la natura sembra far ciò che vuole; un gatto anoressico corre a tutta velocità con ad una cavalletta e la divora. Un animale strano libera nel buio un angosciante lamento, e quando il Lemure si reca in bagno per una doccia, ne esce scandalizzato. Ci sono molte rane, un po’ ovunque. Deciso a far sentire la sua voce alla reception, ritorna con un ragazzo che lo liquida giustificando l’accaduto con: this is normal, we emptied the pool and the frogs came out… eccerto, normale, svuotando la piscina, tutte le rane che erano dentro sono uscite…. Saltiamo al suolo dalle risate. La vera promessa è che forse domani, la piscina sarà funzionante. Isthuti = grazie!
14 agosto
Quanto ridere ieri sera. Quattro dementi che cercavano di studiare qualcosa che aveva dell’innaturale se rapportato al contesto geografico. Un programma di viaggio! Oggi visiteremo Polannaruwa. Tuc Tuc, consigliatoci dai due ragazzi francesi che inizialmente si erano rivelati malmostosi. Nel tragitto, i due autisti tentano una virata tristissima verso un campo semibruciato dove pascolano alcuni elefanti che rovistano nell’immondizia, una discarica a cielo aperto. Che tristezza. Sono quasi contento di non vederli ma perché dopo il piccolo diverbio con uno dei due autisti che volendoci accompagnare per forza (ne sarebbe bastato uno dei due), lascia incustoditi tutti i bagagli. Quando sono a metà strada, ritorno. Meglio, non vedo. Poco più in là, altro stop, dove un mostruoso varano viene attirato a riva con un pesce per dilettare i passanti. Altra bruttura, di duplice natura, ma almeno questo vive in un laghetto carino, sollazzato e viziato con piccoli pescetti. Polannaruwa, antica capitale sorta per volere di re Vijayabahu I che, sconfitto il popolo Chola, qui vi trasferì la capitale con annessi templi e denti divini. Suo nipote re Parakramabahu I la trasformò in una vera capitale a partire dai primi secoli del primo millennio. Senza alcun problema di approvvigionamento idrico, crebbe e prosperò adesa al Parakrama Samudraya, ovvero il “mare di Parakrama” così definito per l’incommensurabile ampiezza. La prosperità della nuova capitale cessò con lo spostamento della capitale a Dambadeniya in seguito all’invasione dei Arya Chakrawarthi alla fine del XIII secolo. In questa distesa di pietre arse dal sole, ogni centimetro eburneo, che sia un gradino o un cordolo, è decorato e scolpito. Mentre stiamo per arrivare, dopo aver costeggiato questo meraviglioso lago che rifrange la luce come uno specchio, uno dei due truffaldini cerca di proporci un ingresso alternativo (eludendo la polizia e i controlli) alla modica cifra di 25 dollari con l’unica pecca di dover evitare il museo, in cui sarebbe stato obbligatorio mostrare il biglietto, e magari sfrecciare a tutti i posti di blocco come fuggiaschi che hanno appena assalito una diligenza in Texas. Rispondo, anzi, rispondiamo picche, perché come da Lonely Planet, l’ingresso all-inclusive è 30 dollari. Loro sgranando gli occhi non se ne capacitano, noi beh, rischiare la gattabuia lankese per 5 dollari anche no… ingresso, museo con splendide ricostruzioni lignee, primitivi ma molto attuali strumenti chirurgici, monili, bracieri, quelli che vorrei trovare per strada e compare a tonnellate, vasellami e statue. Tutte ordinate in un piacevole spazio. All’uscita i tuc tuc ci attendono. Polannaruwa è gigantesca e va girata o in bici o sui nostri centauri a gasolio. Ezio inchioda per strada, incontra una sua amica. Strane coincidenze a 6000 chilometri dalle proprie vite. Questa città è immensa, in ogni angolo che si possa percorrere ci sono rovine megalitiche, cisterne, palazzi e giganti templi buddisti. In molti dei sui luoghi sacri sono abbandonate montagne di cocci. Incetta di codesta immondizia sacra. Lungo la strada Ezy scapriccia e vuole un bracciale intrecciato, ce lo regaliamo contrattando un prezzo per due. Vale si aggira incurante della botta di calore. Teo da carogna quale è, si finge interessato ad attraversare la spanata in marmo ardente, tutto a piedi nudi, ma come appunto dicevo, vira il percorso, lanciandomi da solo sulla piana litica incandescente. Nemmeno Taumasios alla prova dei fuochi. Brulé… Breve tappa ad un angolo ristoro dove provo, per la prima volta in Sri Lanka, Odissoy Odissoy ich bin deine syrene… Facendo partire l’urlo lancinante, il mio pezzo preferito, che consta nel me persona che imito una sirena in puro stile Breda. I locali se la fanno addosso dalle risate.
A Polannaruwa ci sono i ruderi ben conservati del penultimo Tempio del Dente, prima che venisse trasferito. Tutto procede per il meglio, finché la polizia non mette gli occhi addosso all’attrezzatura di Vale. Riesce ad eludere i primi controlli, ma al secondo manipolo di soldati, dichiara a mani levate che non ha il permesso di riprendere. Ci fermano, ma in assoluta tranquillità, con aria di amichevole socialità. I poliziotti ci danno scherzosamente dei soprannomi, (come se nella vita normale non ne avessimo già molti) del tipo:
Teo, per la popolazione locale ‘Loku’ ovvero il Tondo. Lui è giudice e dottore, moderatore e parte logica della vacanza. Colui che ha la capacità di ricrearti dal nulla un attacco di panico e gettarti su Plutone, per poi riportarti coi piedi per terra, in un battibaleno. È l’amico che ti scardina ogni certezza, anche la più banale. È l’abbraccio incommensurabile della scienza.
Ezio: dopo tanti anni siamo riusciti ad averlo con noi. Pellegrino del mondo, l’hostess della moda, è come avere appresso la somma algebrica di Bridget Jhones, Donatella Versace e Randy, la giraffa psicotica di Madagascar. Interprete, dialoga disinibitamente flettendo le ginocchia o incrociando le gambe, con chiunque. Vene definito ‘Usai’ ovvero, l’Alto, perché per i locali, lui è veramente ciclopico. Tutto questo sublime connubio è avvalorato dal sussidio dello Xanax.
Il Lemure: detto ‘Katthui’ ovvero, il secco. È il photographer, personaggio del libro che sto leggendo qui in vacanza (Io che amo solo te). Perso tra le sue telecamere, cavalletti e mega zaini, gira costantemente avvolto da materiale tecnologico, come un’enorme tartaruga dal carapace in titanio. È costante e diligente, un nerd da Super-Quark.
‘Miti’, il piccolo. Io, impaziente/paziente (psichiatrico, dice Teo), cleptomane, divagante. Perennemente a dieta, in generale.
Fumiamo ‘alle zusammen, tutti insieme in un gabbiotto di un metro quadrato, a turni, perché in S.L. non è possibile espletare codesta banale funzione all’aperto. Giocherelliamo con un cane e loro si dicono contenti della nostra compagnia. In realtà vorremmo continuare la visita, ma vista la coda di paglia, meglio star tranquilli. Penultima tappa, il Buddah dormiente, a poche centinaia di metri dal cuore del sito. Qui, dopo aver passeggiato beatamente tra i turisti, Vale viene di nuovo fermato dalla polizia. Io dono ai bimbi locali t-shirt portate appositamente per loro e vengo ripagato da sorrisi candidi simili a mezzane di zucchero. Qui, ai piedi della statua, un illuminato professore accompagna la sua scolaresca che con blocchetti alla mano, viene gettata tra i turisti. Il miglior modo per rendere interattive le lezioni di inglese, direttamente applicandolo coi diretti interessati. Inondati di domande, veniamo poi ricambiati da innocenti pensieri filosofici, elaborati con tutta l’innocenza infantile e intrisi di quella saggia sacralità orientale. Mi commuovo nel senti parlare alcune bambine di vegetarianismo, quale risposta ad un’inutile crudeltà contro gli animali. Dopo, ai turisti viene chiesta una piccola pagellina che verrà poi mostrata all’insegnante. Terminata la visita, nel piazzale di ingresso, Ezio si lancia su una bancarella che rivende affrettate riproduzioni di mediocri Buddah, contrattando e ritirandosi al momento dell’acquisto, per venire rincorso dal venditore che quasi lo lapida col sacro ceppo. All’angolo del lago, un’enorme statua si crede possa essere di re Parakramabahu I, che regge in mano quello si pensa possa essere la guava, accoglie i visitatori con sacra investitura. Così sacra che molti sospettano si tratti di una divinità, e non di un sovrano.
Ora siamo così stanchi che l’idea di fare altre tre ore di strada sembra un sollievo. Il cielo diventa d’un tratto color senape, poi si colora di arancio e per terminare, la luce assume un’aurea siderale. Fermata stante di fronte al megalitico Buddah in piedi, per sostare poi al tempio di Ganesh dove l’autista consegna un pugnetto di offerte all’Elefantone sacro, poi tappa singaranga (tre enormi pannocchie che Vale ingoia come un topolone affamato) ed aria sul viso, tanta, assordante, mista a smog. Ci mancava solo una soffice pioggerella ci si lancia addosso, non facendo mancare nulla alla giornata. In albergo, la piscina è ancora vuota, se non altro, ieri, nel suo interno c’erano degli operai che manipolavano cavi elettrici in barba alla 626. Deserta, vuota, come lo sono le nostre orbite a tale vista. I due francesi se ne sono andati ed Ezio e Matteo si lanciano in avanscoperta, a piene narici, alla ricerca di ineluttabili afrori come segugi impazziti. Ceniamo zozzi e consunti allo stesso ristorante di ieri sera. Mentre scoliamo alcune birre al chiaro di luna in lontananza si odono strani versi animaleschi, forse un pavone o un t-rex. Grilli e gatti fanno da contorno a questa piacevole serata. Regalo il cellulare al ragazzino che ci porta da bere e vista la cresta che è riuscito a cementificare sulla sua testa, decido che il di seguente lascerò anche il mio gel al calcestruzzo.
15 agosto
Trincomalé. La joint inventure di ieri sera, annaffiata da birre e deliri alla mai-dire-banzai, ha optato per un bus, tre ore e mezza in piedi, seduti, in groppa a qualcuno e con altri addosso a noi, tutto senza aver preso alcuna iniziativa personale, anzi, al contrario, lasciandoci trascinare dagli eventi. La ‘giocattoli’ è finita sulle ginocchia di un estraneo e le bottiglie di acqua che ci siamo portati rotolano irraggiungibili sui portapacchi in cui le abbiamo collocate e il viaggio si trasforma in una transumanza, come si sul dire, a bocca asciutta, il cui unico piacere è il vento tra i capelli. La tratta passa da Habarana, e per tutta la durata è stata un gioco ad incastri, un po’ meno per me e Vale, mentre per Teo e Ezio credo sia stato l’equivalente del kamasutra on-the-bus. I sedili sono così piccoli e scomodi che quando la giraffa Ezy riesce a sedersi, le sue ginocchia assumono posizioni tipo ragno steso con il ddt, irreali. Matteo per accomodare la sua possente mole, congiunge le gambe serrandole, e come una mastodontica sirena appoggia le sue terga sul sedile, tutto ciò con la sua innata eleganza. Io per non andare addosso al mio burbero vicino, appendo le braccia al sovrastante portapacchi, iniziando così ad oscillare i polsi che, avvolti da una dozzina di bracciali, rilasciano una tintinnante melodia che desta sorpresa tra i passeggeri, come se al. Io posto ci fisse stata Nefertiti giunta inaspettatamente alla valle delle Regine. È stato un viaggio scandaloso, ma con la convinzione che il mare avrebbe cancellato strappi muscolari, e le onde avrebbero accarezzato la pelle come la battigia, rigenerandola. Siamo a Trincomalé, dove il sole sembra però essersi nascosto tra nubi. Questa località devastata dallo tsunami (vivo ancora tra la gente come un pericolo che sarebbe potuto essere scampato, se solo le autorità ne avessero dato l’allarme con 12 ore di ritardo), sembra avvolta da un impercettibile velo di tristezza. Come dicevo, il sole non c’è, anche se su garanzia di Ezio, ci sarebbe dovuto essere, perché secondo sue personalissime convinzioni, ‘…a sud piove incessantemente, mentre qui il sole risplende’ ormai dimentico del recente monsone appena passato. Mah!
Approdiamo in un albergo. Il nostro tuc tuc arriva parecchi minuti prima di quello con Matteo ed Ezio, che scopriamo poi aver bucato lungo il tragitto. Non ci sono parole per definire il primo approccio. Muoio. Non riesco a trattener le risate, mi vedo già gli occhi sbarrati di quei due alla vista del cantiere che ci accoglie. Un rudere in costruzione, con camere senza pareti e i cui operai, poveri, lavorano su impalcature senza la minima sicurezza. Arrivano. Gelo. Entriamo in quello che sembra un oratorio per boy scout caduto in disgrazia, dove delle camere, completamente diverse dalle immagini postate in internet si affacciano su un giardino con tronchi in cemento, statue di delfini anch’essi in cemento dagli occhi pallati, sbucano fuori da fontane simili a vasche per pediluvi e un gazebo centrale frutto dell’insano progetto di qualche costruttore affetto da sindrome di disturbo infantile. Un tripudio di oscenità. A completare l’opera, un piccolo bar – la peggior bettola di Caracas – dove aleggiano strane creature vampiresche assuefatte da superalcolici, gabbie a protezione della cassa, parenti sudicie su cui penzolano poster vintage cosparse di muffe e ogni sorta di aereo cocco circolante. Una poesia, una vera e cenciosa, lurida stamberga ricca di fascino, che sarà la nostra distributrice di alcolici per le serate a venire! WHAW! Infilato il costume, testate le pale sul soffitto, letti, controllo blatte e siam pronti. A Trinco ci sono due famose spiagge, una un po’ più freak, Nilaveli, l’altra un po’ più attrezzata, Upuveli. Optiamo per la prima che a detta di molti turisti, blog e siti è una delle più belle spiagge del mondo. Venti minuti, siamo a Nilaveli 15 km a 700 rupie a tuc tuc. Sorge il sole. Brilla di colpo. Si incendia la calura tropicale. Oggi è ferragosto. Festa, spiaggia con gruppi di ragazzini agguerriti che saltano, piroettano fendendo l’aria coi loro sorrisi smaglianti. Non si soffre di accerchiamento riminese qui, la spiaggia è immensa, ma solo una parte è usufruibile, quella controllata dal bagnino. Si sta comodi, all’ombra delle lunghissime e fluttuanti palme che vibrano la loro ombra molleggiandosi dolcemente al vento. Vale piazza le telecamere e così che i ragazzini si sentono improvvisamente su un set cinematografico. Ne fanno di tutti i colori. Sono letteralmente impazziti. A contrastare la loro vivace foga, un nutrito gruppo di donne mussulmane completamente coperte di nero, castrano questa esotica atmosfera, con i loro aderenti ed insabbiati veli, simili a faraglioni lavici. Sensuale atmosfera di languida pace. Nulla e nessuno all’orizzonte, placido mare con onde che schiaffeggiano la battigia come pagaie di una trireme. Leggo. Bagno, ci alterniamo per non lasciare borse incustodite. Quando il sole inizia a dar man forte all’arsura, Teo ed Ezio vanno verso un mini baracchino per trovar ristoro. Vale li insegue mentre io, placido resto li a leggere e a spassarmela. Non ho fame e l’acqua che ho con me, mi basta. Ma come spesso accade, il sole mette sonnolenza, cado, anzi sprofondo in un sonno mefitico per destarmi sono tre ore dopo, al rientro dai miei compagni. Non si tratta di insolazione quella a cui sono sottoposto, è qualcosa di molto più simile ai supplizi del trucido Torquemada, il noto inquisitore.
Vedo doppio, il vento in faccia mi fa soffrire. Entro in acqua in totale incoscienza ed è come se mi sentissi mille pugnali addosso. Ben mi sta, tutto ciò senza manco la protezione. La giornata scorre tra le onde, qualche sigaretta e la placida consapevolezza di trovarsi ai tropici.
Verso sera si risale, io color peperone, Ezy che agguanta un paio di birre e nell’attesa, proprio perché il mondo sembra a volte il giardino di casa, trova dei suoi amici che rientrano dalla spiaggia. Due tuc tuc ed in quindici minuti siamo in albergo. Qui piccolo aperitivo intervallato al rituale della doccia, alcolici recuperati nella megabettola venezuelana che all’imbrunire ha aggiunto ancor più fascino sé stessa, davvero magica. La sera ciondoliamo persi per la città; due dei ristoranti nominati sulla Lonely non esistono più, forse unico, il Parrot. Non è stato facile arrivarci, nessuno lo conosceva. Questo family restaurant posto al primo piano è raggiungibile da una vetusta scala, immoquetata e al cui termine ci accoglie un lavandino anni ’50. Il colore predominante è il giallo, con qualche striatura verde acido. Tv a tutto volume e molta approssimazione, per non dire scortesia, sciolta solo alla richiesta di Vale di filmare la cucina, ben accolta. Il locale era prossimo alla chiusura, per cui si spiega la poca cura nell’accoglierci. Tutto sommato, alla fine, abbiamo mangiato discretamente. Scendendo agguantiamo il dolce al sesamo acquistato in spiaggia per ingannare il tempo, nell’attesa di un mezzo che ci recuperasse. Orrendo, amaro, nemmeno ad un cagnolino stante da parte a noi sembra interessare l’articolo. Sfrecciamo per le desolate vie, diretti al Prasanna Hotel. La brezza oceanica taglia da est le rive costellate di edifici ricostruiti nel dopo tsunami, l’aria è un po’ spettrale e il fatto che non ci sia molta illuminazione rende il tutto un po’ ovattato, sonnolento. Il solo freddo alito di Eolo appunto sembra volerci tenere svegli, soffiando tra i capelli. Al rientro ci adagiamo sotto al loggiato, con le nostre birre, pronti ad una serata di risate e pettegolezzi. A distanza di ore, la mia insolazione si fa sentire. Ora tutto brucia e vedo doppio. Un gruppo di ragazze tedesche, prossime al trip Sri-Lanka – India – Birmania – Thailandia – Malesya accompagna la mia agonia strimpellando e canticchiando melodie british tra il pergolato di cemento. L’enorme delfino in calcestruzzo sputa un piccolo getto d’acqua alle loro spalle. Altri tedeschi bevono come cammelli superalcolici probabilmente razziati nella bettola. Davvero surreale il tutto. Crollo cosparso di Prep su un ruvido letto anch’esso in cemento, delizia per la pelle rosa dal sole.
16 agosto
L’alba non tarda a venire, mi sento la pelle come se fosse stata scorticata dalla carta vetrata, in pelo e contropelo. Ezio e Teo già si muovono sotto il loggiato, fumanti come due ciminiere. Una succulenta colazione a base di scriteriati ingredienti viene servita sotto al pergolato di cemento in stile incubo di Dalì. Vale in doccia tarda a raggiungerci e quando arriva, svuota un cesto di pane, con la solita, famelica discrezione. I quindici chilometri li ripercorriamo in tuc tuc, con scorta di acqua e tanta voglia di mare. Il paesaggio intorno sembra portare ancora le indelebili tracce della violenza subita, un susseguirsi di edifici ancora in costruzione, scheletri e lamiere, trinchi macilenti ai bordi delle strade, e un’insolita cupa atmosfera settembrina. La spiaggia di Nilaveli, di mattina è color smeraldo così intenso, che poche volte nella vita ci è capitato di vedere. Il bagnino, particolarmente alto ed affascinante per essere un lankese, si avvicina incuriosito. L’attrezzatura di Vale raccoglie intorno curiosi che si immaginano riprese documentaristiche o cinematografiche in puro stile bollywoodiano, in cui noi, piccoli partecipanti di questo B o C movie il cui direttore è il Lemure, spesso coadiuvato da Ezy, che pare sentirsi particolarmente a suo agio di fronte alle telecamere… I ragazzi si lanciano al bar e di ritorno, riportano racconti di una napoletana simpaticissima che dice di aver dormito in un tunnel di scarico fognario in cemento con portelloni tipo porta-degli-inferi, dotato di materasso. Soffia il vento ed insieme ad esso giungono nuvoloni, anzi, uno, unico e trino, ma delle dimensioni di un ufo gigante. Nero. Le donne musulmane avvolte nei lo niqab neri, sguazzano in mare come enormi macchie di inchiostro, mentre altre, in piedi sulla battigia, svolazzano come biancheria stesa al vento. I corvi planano spaventati e Vale, in preda ad un eccesso di mascolina maturità, decide di affrontare la scala a pioli della guardiola per le riprese dall’alto. Ha la stessa goffaggine di un panda che cerca di arrampicassi su una palma. Lo stesso guardia spiagge, che stamattina ce l’aveva coi miei bracciali, ora sembra un aiuto regia di fianco a Vale che dalla cima alla torretta di avvistamento, con la ‘bambina’ in braccio, sembra su un set spielberghiano di ‘Jaws’…
un signore elegante si avvicina incuriosito dalla nostra presenza, minoranza a bassa melatonina in una spiaggia che sembra un cofanetto di caffarel cacao intenso, ci presenta la sua bimba e scambia due parole. Chiediamo delucidazioni su come raggiungere l’indomani Nuwara Elhya, e dopo una telefonata – credo col fratello – ci consiglia di andare allo Shiva Restaurant. Inizia a piovere. Il bagnino mi chiede un regalo, dono un cellulare che mi ero portato appresso per regalarlo a qualcuno a cui servisse. È perplesso, forse gli sembra troppo, ma accetta. Piove. Ci ripariamo in attesa che il tuc tuc ci venga a riprendere e in quella triste baracca ingurgitiamo semi fritti e gallette di mais soffiate. Intanto il proprietario dello Shiva Restaurant, compare e proprio a lui chiediamo informazioni su come muoverci l’indomani da Trincomalé in direzione delle piantagioni di the. Cerchiamo di addolcire l’esosa somma richiesta richiedendo un piccolo sconto, ma nulla. Pattuito il compenso e visitato il mezzo di trasporto, ben conservato in un recinto avvolto nel filo spinato che circonda l’intero piazzale retrostante. Si parte. Acqua sul viso e un po’ di freddo. Sembra una coda monsonica, e il pensiero ci trattiene dall’andarcene. Ezio e Teo salgono sul loro velocimotor verde incelophanato, come fossero sotto vuoto. Sarà l’ultima notte a Trico e dire che ad ora non sapevamo ancora ce la saremmo ricordata… Il bagnino ci ha parlato di un locale molto in voga il cui nome ‘da Fernando’ è sulla bocca di tutti gli upuveliani che frequentano la spiaggia di Upuveli. Ma c’è il tempo dubbioso e da qualche parte leggo che si può cenare decentemente da ‘Villa’. Così tratti dal nome e dalla vicinanza al mare, ci facciamo trasportare da un autista che forse aveva mezzo lobo cerebrale ibernato e che rispondeva al nome di Ganesha. Riesce a spillarci anche un piccolo anticipo sul viaggio di ritorno. Entriamo in questo mostruoso hotel di cemento ed acciaio, acquari e arredamento in nero laccato, stile boudoir di una rottamata panteressa con scarso gusto estetico, con ceramiche lucide ai pavimenti, mantovane e drappeggi color penicillina maculata ed un menù che definire insignificante è poco.
Non siamo seduti che da un minuto, ed una disapprovazione alla location (che mirava a Fernando da mo’…) fa esplodere un diverbio. Ezio si lancia verso l’uscita imprecando. Io ho un sussulto di rabbia e Teo sembra non curarsi del fight-club, in un unico atto. Usciamo inciampando nella nostra collera, per ben tre volte chiamo Ganesha, quel ritardato, che mi conferma di star per uscire di casa, ma di lui non vi è ombra. Fermiamo un altro taxi, giunto lentamente seguendo una mucca a spasso da sola sulla strada. Zitti, tutti arrabbiati, come se fosse successo chissà cosa. Arriviamo da Fernando. Il posto è meraviglioso, adagiato sulla spiaggia, bamboo e sabbia, candele e musica. Siamo ad un tavolo con Haicher, un tedesco semi ubriaco. Io cado in silenzio, vorrei essere abbrustolito dalla mia febbre solare, che intanto mi dona scariche di freddo ad intermittenza. Dormo inseguendo sogni di pace, che tardano a venire, mentre uno shampoo di inconcludenti pensieri mi avvolge la calotta cranica.
17 agosto
Stiracchiati in un letto ruvido che mi ha stuzzicato ogni singolo poro dell’epidermide vivamente irritato da cotanta arsura e imbecillità del sottoscritto nell’esporsi ad una temperatura tropicale degna delle peggiori torture partiche. Colazione a rallenty, uno dopo l’altro usciamo dalle stanze, una lenta e solenne processione sondando i volti dei compagni per trovare anche le più deboli tracce della serata poco socievole. Saldiamo il conto, omelette e pan carré e poi la testa infilata nella bettola venezuelana alla ricerca di qualche ulteriore cimelio mnemonico da racchiudere nei ricordi, come se non bastasse l’immagine da circo in rivolta sindacale della sera precedente.
Keshi sarà il nostro autista, per quelle dodici ore che ci porteranno sino ad Haputale, nella Hill Country, la valle del the. Chilometri e chilometri macinati cercando di riportare l’atmosfera al precedente screzio. Non è facile, ed io per primo, mi sento sempre oltraggiato quando litigo o discuto con gli amici, per me questo legame è qualcosa di sacro e la discussione, seppur piccola o insignificante, risulta esser totalmente invalidante, non solo a livello intellettivo, anche fisico, almeno per le ore successive. Ho posizionato nello zainetto, in superfice tutte le magliette da bimbo che ho portato con me. L’autista, come del resto tutte le persone a cui abbiam chiesto informazioni riguardo la Hill Country, ci hanno messi in guardia sulle basse temperature che avremmo incontrato lassù in ‘collina’. Lungo la strada ci fermiamo, su specifica richiesta del Lemure, che altro non desidera che ingoiare almeno un paio di singaranga lessate al sale, mentre Ezio fuma placidamente una sigaretta dall’alto della sua sagoma eiffelliana, per passare poi ad assumere una posizione architettonicamente ‘brunelleschiana’ attorcigliando le sue lunghissime gambe come una colonna del famoso baldacchino barocco. Teo, in posizione napoleonica, fuma l’ottava sigaretta dal risveglio (avvenuto circa 4 ore fa…) a gambe aperte, portando come di consueto, la mano sinistra sotto l’ascella destra, schiacciando tutto il peso sui poveri crocs verde fango, vittime sacrificali di ogni diaspora tropicale, ormai da tre anni a questa parte.
Una mamma, una nonna e un nipotino sfoggiano un sorriso perlaceo e fiero, un’enorme pentola nera, sopra un fuoco che emana calore anche a distanza, due bastoni di legno, lunghi e richiusi in alto da una corda di rafia che trattiene anche dei lembi di tela cerata che funge da riparo dalla leggera pioggerella che ogni tanto impregna l’aria. Il bimbo ci sorride, nascosto dietro al telo sfrangiato dall’usura, come un piccolo topolino timido, cosciente di aver perso qualche dente. Rovisto nel mio zaino e subito trovo una magliettina, gliela pongo, lui, così timido e preoccupato di non fare un passo oltre al suo campo domestico, viene invitato dalla nonna ad avvicinarci. Prende l’indumento, gli occhi gli brillano, ringrazia e scappa via. Negli occhi di quel bimbo c’era di sicuro la stessa meravigliata ed immacolata innocenza che compare sui volti dei bimbi, quando ricevono un regalo. Lo stesso che avrà avuto Jacopo, il bimbo di Alessia quando l’avrà ricevuta e che ora ha donato a lui, facendo di me un tramite. Ricordo però di averne altre, tra cui una che ritrae Batman in azione. Cerco e trovo. Chiedo di nuovo al bimbo di avvicinarsi e con questa davvero abbiam fatto breccia. Una volta preso il capo è corso subito sul retro e l’ha indossata immediatamente. Quanta felicità in quel bimbo, in quel sorriso e in quella semplice famiglia. Questa breve pausa, mi sento di dire, è stato un momento per riassettare gli animi. Qui è tornata la quiete. Sorrisi, forza e tanta voglia di arrivare. Passano le ore, spifferi dai finestrini e il tempo peggiora drammaticamente. Ad un certo punto, a Nuwara Eliya, Keshi carica un suo amico, nel pieno centro di questo strano avamposto dall’aria coloniale. Presi un po’ dall’ansia e dalla stanchezza, mentre tutto il panorama intorno abbandona l’allure dell’isola tropicale per assomigliare sempre più ad un avamposto romano al limite della sperduta Dacia transdanubiana. Chi l’emicrania, chi le proprie deiezioni e chi la fame, ognuno di noi lamenta qualcosa. Quando ormai siamo ad una decina di chilometro da N. E., mentre sembra ormai vicino il traguardo, Keshi inizia a dar segni di cedimento. Non si trova con la strada, sdrucciolevole e quasi pericolosa. La pioggia rende tutto più faticoso. Le vie non sono segnalate e quanto da noi prenotato come ‘cottage’ immerso nelle piantagioni di the, nemmeno la traccia. Inchioda ad un certo punto appena dopo una curva, dove un’auto incidentata e ridotta a cenere da un remoto incendio, ci da il benvenuto. Una stradina scoscesa, con ghiaia e rivoli d’acqua, spettrale. Keshi ci invita a scendere per andare poco più a valle a chiedere se si tratta della nostra agognata sistemazione. Ezio e il Lemure si spingono oltre le colonne d’Ercole per risalire dopo pochi minuti esterrefatti. Sotto solo baracche o depositi da lavoro. Risaliamo dopo esserci pure infradiciati nella sosta sotto la pensilina in lamiera bucherellata, diretti chissà dove. Keshi, vedendoci afflitti, sembra essere l’unico ad avere un piano ‘b’ per salvaguardare le nostre povere anime. Sostiene di conoscere un posto carino, nella campagna, per persone come ‘noi’… Boh…
Forse immaginandoci come australopitechi in viaggio in preda allo sconforto più totale. Dopo almeno una decina di chilometri, accosta lentamente per poi affondare nel buio parcheggio sterrato alle pendici di una collina, accompagnando la sosta con sinistri rumori generati dal terreno scosceso, tutt’intorno un’aria da tregenda, mancano fuochi fatui e tuoni a completare la scena. Fango e freddo, una casa che ha tutta l’aria di essere la dimora di uno di quei serial killer americani che non aspettano altro di ricever inaspettati ospiti un po’ deficienti, gettati dall’infausto destino, spesso da una ruota bucata, tra le fauci del loro aguzzino. Tremo già dall’ingresso. Tutto scricchiola anche senza che ci si sposti. Sembra l’arca di Noè, ma non al varo, ma bensì al termine della corsa, con annessi lepidotteri, blatte e chissà cosa… Cerco di descrivere lo sbalordimento stile Carter di fronte al sarcofago di Tuth, e testé enuncio: una piccola veranda buia il cui pavimento oscilla sotto i nostri piedi. Ingresso, drappi e tende damascati divelti, moquette per terra e pareti ricoperte da rivestimento gommato stile cinema anni ’50. Tivù tubo catodico che fibrilla immagini di un telegiornale locale che si inceppa e lancia gracchianti e nevrotici rutti elettrici che, sotto la pioggia scrosciante, la rende simile ad una betoniera in azione. Il profumo diffuso nell’aria è quello della muffa misto al compensato bagnato; una rampa di scale che rilascia rumori come nei saloon dei film western, quasi ad invitarci a muovere timidi passi. Tappezzeria color mostarda screziata di verde che, come felce selvatica, ciondola dalle pareti. Soffitto, si, esiste, ma è bassissimo, persino per me che non arrivo ad 1,70. Prima camera, ennesimo shock – olfattivo e visivo – dove materassi giacciono su strutture arrugginite in ferro cosparse di tetano e sui cui poggiano, in una sorta di veglia funebre, differenti coperte in pile dalle molteplici fantasie floreali, animalier e a trame tartan in puro stile highlands scozzesi. La seconda stanza mostrataci a riscatto del nostro primo riluttante rifiuto, non merita di essere nemmeno descritta, perché nel tentativo di voler essere migliore della precedente, con qualche scadente optional in più, è caduta verso un limbo di violazioni alle più banali norme di sicurezza, come cavi dei condizionatori che ciondolano dall’alto come ragnatele, pale rotanti-oscillanti-pericolanti, televisore sospesa con spago sopra al letto e pure qualche quadro storto alle pareti. Usciamo di corsa silenti e spaventati, come se il mostro della casa volesse impiantarci un’ascia in mezzo alle scapole. Risaliamo sul bus e li che Ezio inizia ad accusare seriamente il colpo. Come una segretaria alle prese con la sua Olivetti M40, inizia la ricerca urbi et orbi di un alloggio per la notte. La ricerca spazia da hotel super lusso a 300 euro a notte, a lodge con piscina con giardini pensili e campi da golf. Nessuno osa contraddirlo, se non Teo, che cerca di limitare i danni. Ezio sembra impazzito, ogni tre minuti dice, anzi urla, prenoto! prenoto! Guardate che io prenooooto! Come in preda ad un demone, alla fine l’angelo del buon senso lo spinge verso l’hotel Inroma (che nome senza senso) su Church road. Lo prenota. Il bus esanime e un po’ mortificato dal mancato obiettivo raggiunto ci lascia come concordato, ad un bancomat. Salutiamo lui e compagno, ora due tuc tuc trasporteranno i nostri feretri in questa alcova scoperta grazie a booking in questa spettrale cittadina stile elvetico. Questo grande albero si affaccia sulla buia strada, una piccola famigliola molto carina ci accoglie lungo la rampa in salita fatta da una dozzina di gradini. Freddo, tanto, tantissimo. Come se fossimo arrivati sull’Appennino tosco-emiliano a novembre inoltrato. Abbiamo anche fame e mentre il capofamiglia ci conduce, dopo il check-in in camera, qualcun’altro inizia a spadellare per noi. La camera ha soffitti altissimi in legno, i nostri 4 letti sono incastrati alla perfezione nei 40 metri quadrati della nostra camera, area che si sviluppa inutilmente verso l’alto, visto che i letti sono incastrati su un pavimento 4×4 lasciando poco spazio al povimento. Facciamo un caffè e a turni ci docciamo. Giù in cucina stanno preparando del riso e delle omelette, e quando scendiamo, lanciandoci coi piedi sotto al tavolo, tutto sembra magicamente perfetto e degno della famiglia Hohenzollern Coburgo-Gotha. Vale chiede permesso ed entra con il suo bazooka da ripresa in cucina per filmare la curiosa arte cingalese di trasformare una carota in una farfalla, della verdura in coriandoli e la rapida preparazione di un riso saltato in una gigantesca wok. Ceniamo, e dopo un the con biscotti, collassiamo in preda ai crampi dalla snervante giornata.
18 agosto
Sveglia, caffè e doccia. La cittadina sottostante ha un’aria completamente diversa, sembra San Colombano al Lambro in autunno, avvolta nella bruma, ma Ezio a parte, noi 3 siamo completamente impreparati al clima. Un signore con il suo autista si sta per dirigere alla Country San Pedro, per visitare le piantagioni. È un ricco singalese in pensione, che ora, dopo molti anni trascorsi in America, ha deciso di rientrare per scoprire e recuperare il tempo perduto, lontano dalla sua patria; quella che comunemente sullo Zanichelli è definita ‘nostalgia’. Gentilmente ci carica e ci porta a circa cinque chilometri da dove alloggiamo. Chiacchiera e ci racconta un po’ di vita, finché il pulmino non imbocca la salita finale, quella in cui si fermerà per permetterci la visita. Lo stabilimento è chiuso oggi per le elezioni nazionali, e ci sembra che la maggior parte della popolazione speri venga rovesciato l’attuale corrottissimo presidente Rajapaksa, tifando all’unisono per Sirisena. La visita durerà circa mezz’ora, dotati di grembiule, sorseggiamo un the, per poi accodarci ad una lunga fila eterogenea di curiosi, il cui unico e certo comun denominatore è l’essere degustatori di questa prelibatezza cingalese (essendo questo il più grande paese esportatore al mondo). Secoli addietro, gli europei avevano individuato in queste zone montane l’habitat ideale per far proliferare questo genere di coltivazione, e così fu. Dai portoghesi agli olandesi per poi giungere agli inglesi, questa attività non ha fatto che accrescere anno dopo anno – anche in termini economici – tanto da rendere questo dominio d’oltremare così prospero da aver una propria coniazione monetaria battuta dalla zecca inglese con iscrizione ‘Ceylon’ differente dalla vicina e prosperosissima India.
Al Lemure viene impedito di filmare, per cui inizia a perlustrare i paraggi tra le distese sconfinate di the.
All’interno dello stabilimento, lunghi tappeti rotanti (immobili) rendono l’idea del trambusto notturno per il trattamento del the raccolto quotidianamente, un profumo inebriante, cataste di sacchi affastellati che nel suo insieme crea un’immagine estratta da una pellicola di ocracei documentari anni ’40. Estasiante, a tratti. Fuori il maltempo incalza, freddo e pioggia in questa Cortina posta ai tropici d’oriente. Coi bagagli già fatti, non resta che decidere il da farsi. Tornare in albergo, saldare ed andare in stazione, oppure fermarci. La soluzione che ha messo tutti d’accordo è stata quella di lasciare il freddo per il caldo. Soprattutto perché è ormai appurato, che da li potremmo solo andare a Galle, passando di nuovo per Kandy e Colombo, escludendo quindi Kataragama, troppo fuori mano. Giunti in albergo e ringraziati gli ospitali titolari, che sanmartinescamente ci hanno accolti, sfamati e coccolati, il nostro signor milionario cingalo-statunitense ci accompagna in stazione. Partenza tra 5 minuti, saltiamo su. Scomodo e spigoloso bus di trasporto civili ammassati alla mercé di curve e strapiombi. Kandy-Colombo in quasi 5 ore. Irripetibile. Ezio racconta di un tizio un po’ suonato che dopo aver sgranocchiato semi, gli sputava addosso le piccole scorze umettate di saliva, come un lama peruviano. Tra balzi, strattoni, pigiamenti e sovraimpalcature umane, ci ritroviamo a Colombo, lungo una via moderna stile superstrada in cui tutti i bus da e per quella città fanno capolino. Questa non è però la stazione da cui partono i bus per Galle, lo sospettiamo da subito, ma non è così immediato dedurlo, visti gli innumerevoli depistaggi da parte de venditori di biglietti che nell’ordine cercano di farci tornare a Kandy per poi arrivare a Galle, oppure opzione b, la più ovvia ma non la più semplice da attuare, arrivare in un’altra stazione e salire su un super bus. Un’ora di litoranea in partenza da Maraghama Station potrebbe portarci a Galle entro sera. Non sembra certo sia cosi semplice, tant’è che appena di corsa riusciamo a salire su un bus urbano già visibilmente strapieno, sospinti verso i pochi posti vuoti.
19 agosto
Di quella transumanza ricordo solo di esser stato sepolto sotto a 4 zaini ultra pesanti, riuscendo ad occupare due sedili (posti per cui ho pagato a caro prezzo) e che mi son costati almeno un paio di liti con gli increduli cingalesi che volevano mi spostassi. In ogni modo, che esistano bus non è in discussione, ma nessuno di essi è strutturato per trasportare turisti e i loro rispettivi bagagli. Insomma, quelli che dovevano essere 15 minuti si trasformano drammaticamente in 45 minuti di prigionia. Corpi che si sfiorano, si comprimono tra loro, profumi e odori (soprattutto i secondi), stanchezza e voglia di mettere la parola fine e di immaginarci su una spiaggia del sud, al sole. Giunti a Maraghama, in un piazzale non particolarmente affollato, ma altamente ricco di piombo, dal momento che i tre bus presenti accesi da non si sa quanto, diffondono nell’aria il gas di scarico in quel rituale malsano tipico del terzo mondo in cui i mezzi non vanno mai spenti. Teo si fuma due sigarette di fila mentre sorregge il suo pancione facendolo dondolare come se ripercorresse le oscillazioni a cui siam stati sottoposti da ormai 9 ore. Ezio gioca con il suo ciuffo ribelle, che cerca a più riprese di tenere a bada spillando dalla bocca le mollette in metallo acquistate a Kandy. Il Lemure porta sul viso la fatica e l’amarezza di non aver potuto filmare quel tragitto e forse ancora cova il lutto di essersi separato dalla sua ‘bambina’ per tutto quel tempo, lasciandola in mia custodia. Beh, io, cerco di riportarmi in posizione eretta, ma a fatica. Bus. Un’ora rush finale, velocissimo e ultra comodo. Siamo a Galle. Ci scarica al Round Circle, di fronte al Main Gate che piantona le mura del forte, nella via principale di ingresso. È sera, buio, molto buio fiori le mura, ma tutto è cosi poetico. La cittadina è piccola, dall’iconica atmosfera tipica dell’architettura olandese di qualche secolo fa. Sosteremo alla Old Dutch House, in Middle st., una piccola via che congiunge la centrale Lighthouse st. a Rampart st. dall’atmosfera davvero unica. Case dipinte a nuovo, con colori delicati intervallati a legno lucido e ben curato, tipico delle dimore coloniali. Un’aria fresca ma non troppo, quella brezza che ti porta l’oceano nell’anima e che fa finalmente sognare qualche ore di meritato riposo al sole. Un cielo stellato unico nel suo genere, grazie all’inquinamento luminoso ridotto al minimo appare come uno scuro mantello indossato dalla luna.
Purtroppo, una volta arrivati alla O.D.H., al proprietario però non sembra risultare la nostra prenotazione, per cui, dopo un’estenuante trattativa a colpi di indecenti soluzioni proposte come giacigli alternativi in alberghi diametralmente opposti alla nostra prima scelta, veniamo sistemati così: Teo da solo nella reggia mater, una cella frigorifera di due metri per uno che, dotata di aria condizionata a propulsione nucleare arriva a sostenere ermeticamente temperature pari al circolo polare. Solo, come un quarto di mucca adagiato al talamo. Io, Ezio e il Lemure, in una dependance, non male se non fosse che al solito Ezio dovrà ciondolare le caviglie nel vuoto, sfidando la gravità, mentre ed io e Vale in un baldacchino con zanzariera preposto a due persone di 1 metro e 60 al massimo. Insomma, una fatica anche qui. La fame prende il sopravvento sulle basilari norme igieniche per cui, massimo mezz’ora dopo annaspiamo affamati alla reception alla ricerca di un ristorante, che speriamo, non chiuda come nelle altre località. Un ristorantino dipinto di verde, il Lucky Fort Restaurant, sovrastato da due grandi oche bianche in gesso, dal becco giallo simile al simbolo della Mandarina Duck, gestione famigliare e moltissime piante intorno al piccolo cortiletto che ricrea la tipica trappola tropicale per zanzare; sediamo fuori, sotto la lieve brezza dei ventilatori da parete. Una luce fioca illumina il tavolo e una gentile ragazzina ci segue durante le ordinazioni, che iniziano con acqua e birra locale. Il caldo è asfissiante, perché a differenza del resto della città, qui l’aria non corre. Mangiamo bene, piatti di pesce e riso, omelette e kottu, tutto servito nei giusti tempi. Sono davvero cordiali. Ezio, per non farsi mancar nulla, termina la sua birra e quella mia di Vale, e questo giova molto al suo umore, tanto che al ritorno sembra quasi apprezzare la camera demoniaca. Mentre rientriamo sulla strada lastricata, Vale ci informa del suo piano architettato nell’attesa del conto, ovvero quello di utilizzare la cucina del ristorante, con la complicità dei proprietari, per girare una puntata di presa diretta sugli usi e costumi locali, con Ezio nei panni della Benedetta Parodi in trasferta. Il tutto si girerà domani sera, dopo la cena consumata ovviamente presso di loro.
20 agosto
Il risveglio a tutta l’aria di farci sentire in vacanza, contro le peggiori previsioni climatiche, a Galle splende il sole, e che sole! Cielo azzurro e bianco sono i colori che primeggiano, qualche nuvola attraversa velocemente il cielo, spinta dalle correnti che giungono da sud. Per la città si respira la piacevole sensazione di essere nel posto in cui tutti noi volevamo essere. I bastioni proteggono la nostra piccola oasi coloniale all’interno di quegli edifici un po’ famigliari. Oggetti multicolori ondeggiano insieme al suono delle campanelle, fili di lana, borsine generate da patchwork multicolor, calzoni sarouel e t-shirt con faccioni di elefanti e danzatrici volteggiano come un corpo unico di festante folla che accoglie i turisti.
Una piccola Amsterdam ai tropici, chiesette e cimiteri assisi ad eterni guardiani di un mondo che non c’è più, quello della spinta europea oltre i propri mari, alla ricerca di un profitto e di un’innata propensione a sovrastare la debole resistenza dei prossimo. A poca distanza una marcia militare, forse un addestramento che si tiene nello sterrato vicino alla porta principale dei bastioni, riporta la pace al concreto scorrere del tempo scandito da un suono molto simili al avaaaanti maaarch! tanto in uso dalle nostre parti. Facciamo colazione con pancake al gusto di banana cosparsi di miele, esposti ormai alla perpendicolarità del sole che scotta la testa. Sembra un miraggio, ma non lo è: all’esterno del locale dove siamo, anziché esserci inferriate per proteggere l’interno, penzolano una moto Guzzi totalmente arrugginita ed una bici, o qualcosa di molto simile. Molto bello. Passeggiamo per le vie alla ricerca di qualcosa da portare a casa ad amici e parenti, disposti a tutto, visto la totale mancanza di oggetti acquistabili durante tutta la vacanza. Cuscini, tappeti, calamite, calamite, calamite, se uno volesse acquistare un piccolo gadget, non resterebbe che acquistarne un cesto pieno. Loro, le calamite, ineluttabile e salvifico gadget che sbuca da ogni tasca dello zaino al rientro da qualsiasi vacanza, che può accontentare, zie, nonne, amici e colleghi. Peccato che dei milioni e milioni di questi oggetti che riempiono i negozi, ve ne siano solo tre modelli, in molteplici colori. Delusione lo shopping, abbacinante frustrazione che riporta il desiderio di un oggetto che sintetizzi i nostri 15 giorni. Rientriamo da questa passeggiata come le armate napoleoniche dopo Borodino, vittoriosi, ma sfiancati ed avviliti. Teo ed Ezio restano in albergo, io e Vale, tra mercati e terracotta, pesci e barche ci dirigiamo verso Jungle beach. Arriviamo in questa lagna blu circondata da mangrovie, un angolo stupendo ai piedi di un bianco tempio chiamato Ramussala ci osserva come un enorme nasone puntato all’insù. Molto relax e pace, un succo d’ananas mentre Vale inghiotte un’orata enorme, all’ombra di un fitto palmeto che circonda un chiringuito che come fantastica fucina, genera e produce di tutto. Ogni giovedì in questo luogo c’è un party, tranne stasera, per via delle elezioni, gli aggregamenti sono proibiti… Con Vale ci inventiamo temporanee iscrizioni sulla sabbia da inserire nel video-doc, galleggiamo e tra il diletto e qualche pacchetto di sigaretta, scorgiamo Teo, che si palesa nel tardo pomeriggio, quando noi, brullé, ormai stiamo lasciando il campo. Fremiamo per seguire i canti e gli scampanellii che giungono da Rammassala, il capezzolo bianco, infinitamente elegante sopra questo mare dipinto. Dispiace molto lasciare questo posto e le preghiere vanno al tempo, nella speranza che domani nessun tifone spazzi via la speranza di qualche ora di soleggiato riposo nel medesimo luogo. Risaliamo di qualche centinaio di metri, dove le mangrovie secolari creano una scalinata vanvitelliana tra il terriccio volteggiando ellitticamente a destra e sinistra. Giungiamo in cima, un cagnolino sosta sull’ingresso del tempio posto a sinistra, dove un suonatore di gong attende l’arrivo del maestro. Circumnavighiamo più e più volte il meraviglioso edificio, soprasseduto da statue dorate dell’illuminato segnano i punti cardinali. Quello è in assoluto il punto più meridionale del paese, almeno, così ci dicono. Il sole ha dato inizio ormai da qualche manciata di minuti, alla sua eterna discesa verso l’orizzonte, poco alla volta incendia e dipinge il cielo di un colore simile allo yogurt alla fragola, davvero uno spettacolo unico nel suo genere. Ce lo godiamo fino in fondo, quando la luce diviene cupa e il blu cobalto circondo l’edificio che ora, illuminato artificialmente, splende in tutta la sua bellezza. Entriamo per qualche minuto di preghiera. Saranno dieci estasianti minuti, in una posizione ultra scomoda. Bello, magico e tropicale. Saliti su un tuc tuc corriamo verso il centro, dove appunto, rimessi a nuovo andremo al ristorante per la parodiana cena. Qualche ora dopo siamo tutti di nuovo ad attendere i reciproci ritardi alla reception. Ognuno con la sua giornata nel cuore, conteggiando pro e contro di giornata trascorsa indipendentemente. Torniamo al ristorante dove la madre e la ragazzina ci accolgono sorridenti, proponendoci un angolo dall’altro lato del ristorante, sempre in una sorta di loggiato che congiunge esterno ed interno. Accesi i ventilatori, puntati al massimo, e uno sguardo frugale al menu e parte la solita tiritera dell’ordinazione al sapore di terrorismo piccante. No spicy, no more, please… Intanto il Lemure, armato di archibugio tecnologico, va a sondare e a rinnovare la disponibilità e prepensione dei proprietari a tenere una lezione di cucina. Tutti dicono nuovamente si, e al termine della nostra cena saremo tutti intorno ai fuochi per la preparazione. Riso, rothi, shambol e chissà cos’altro. La cena vola, forse nell’attesa di divertirci in questa anomala ripresa da ‘culatello’s kitchen’ (Teo chiama così lo Sri Lanka per via della sua forma, o forse per il desiderio recondito di azzannarne uno dopo quasi 15 giorni di astinenza). Ecco, cena terminata, il figlio della proprietaria Chandre Deshan estrae dalla cucina con tende in velluto bordeaux, un tavolino drappeggiato color amaranto, simile ad un simulacro sacro, fiancheggiando al tavolo orlato una bombola al gas, in barba alla 626. Escono dalla cucina nell’ordine: una piccola trivella in metallo da agganciare al tavolo, delle bacinelle in pvc, un piattino con peperoncino, noce di cocco e una ciotolina con della farina. Dulcis in fundo, un machete, un cucchiaio e un accendino. La soverchiante figura del cuoco copre il resto dello spazio, adibito a tale funzione. Ezio incrocia le lunghissime gambe alla maniera tipica del fenicottero per assumere una posizione consona alle riprese televisive. Il Lemure, ruota a destra e sinistra per cercare luce, inquadratura, angolazioni visibili solo al suo occhio ossessivo, propeso al proprio personale divertimento. Colpo di machete e la noce di cocco si fa in due parti. Trivella metallica ed a turno lui e poi Ezio, macinano l’interno della noce ricavandone una poltiglia simile alla farina bagnata. La destrezza del ragazzone cozza con l’impacciata rotazione oraria della manovalanza italica di Ezio, che lo rende simile ad una bimba che cerca di caricare al massimo la batteria del suo giocattolo a molla. Io e Teo in disparte facciamo ciò che ci riesce meglio. Sfottiamo. Ezio chiede e traduce, agita i polsi come se stesse all’Operà di Parigi durante l’esibizione di Swan Lake, e macinano, tagliuzzano roba, aggiungono farina e acqua fino a ricreare delle piccole pagnottelle che poi tentano di far brillare in una padella posta sulla bombola. Poi di nuovo, tagliuzzando pomodori e peperoncini, spezie e chissà cos’altro, e la pietanza è pronta; una sorta di ratatouille cruda da porre sopra alla pagnottella di cocco ancora tiepida e cosi, dopo circa 45 minuti il sambol è pronto. Al temine della preparazione alcuni di loro assaggiano, io e Vale ci ritiriamo millantando una sorta di allergia alla cipolla. È stata davvero divertente e al momento dei ringraziamenti, dalla cucina escono nonno e mamma. Un’allegra famigliola. Allegra.
21 agosto
Risveglio, colazione e poi si cerca di esser fuori per una passeggiata insieme. Visitiamo la Cattedrale adesa ad un piccolo cimitero, il cui pavimento è foderato di tavole in marmo che recitano iscrizioni in latino e boero. Uscendo dalle mura in direzione nord siamo alla ricerca di qualche negozietto di artigianato e l’unica cosa simile a saziare il nostro desiderio sembra essere una catena governativa dove a dir la verità, vengono vendute cose molto poco interessanti, ma pur sempre artigianali. Il solito furbetto di turno cerca di trascinarci lungo un vialone alla ricerca di un suo amico che intarsia il legno e noi, mai abbastanza scaltri da diffidare del solito furbetto, accettiamo, trovandoci a percorrere almeno un paio di chilometri respirando piombo. Delusione, se non una pila di cocci in terracotta utili ai bimbi per giocare sulla spiaggia con la sabbia, una sorta di secchiello e paletta eco-friendly, e un tegame. Alla rotonda di fronte al mare, ci separiamo. Ezio e Teo torneranno in camera a scaricare le borse, anche le nostre e non solo… Io e vale proseguiamo per il mercato, con la promessa che ci saremmo rivisti nel pomeriggio alla Jungle Beach. Enormi pesci tagliati, frutta, verdura, paglia e terrecotte, tutto in un’alternanza surreale, ma ben divisa da questa prodigiosa caratteristica cingalese, quella di non trattare tutto allo stesso modo, tipico invece del popolo indiano. Qui sembra che ci siano rituali ben distinti. Nessuno vuole convincerti a far nulla a cui non sembriamo interessati. Libertà di ripresa senza nulla in cambio, sfidando la resistenza olfattiva mentre, tra secchielli pieni di granchi e banconi traboccanti acqua salmastra, si sentono battere forte i colpi delle asce contro i tonni. Un ragazzo che vive in Italia ci ferma e ci racconta delle sue vacanze in patria volte al termine, dove lascerà moglie e famiglia per lavorare in uno stabilimento di salumi in Emilia. Tra un cesto di paglia e un filtro per il the, giungiamo sul lungomare, dove Vale sembra mirare il mondo solo attraverso l’unico senso rimastogli, l’obiettivo della camera. Io non riesco ad essere così staccato dalla situazione che quest’aria da tregenda oceanica mi da il voltastomaco. L’odore è acre, gli occhi pallati dei pesci con il rischio che me li possa sognare di notte e questa esposizione da massacro incerato a lucido dato dal riverbero del sole sulle squame ancora bagnate mi fa male. Non sono mai entrato in una pescheria in vita mia, e un motivo ci sarà, poi da quando mio padre ha chiuso la sua beccheria, l’idea di entrare in un luogo dove vengano vendute proteiche sezioni di cadaveri mi causa uno sturbo degno di nota. Faccio di tutto finché questo termini alla svelta e passeggiando nell’ultimo tratto di spiaggia a lama di falce, prima che venga ingoiata dalla città, vediamo una barca dipinta con tricolore italiano, dove una dicitura in patriottico idioma, decanta la generosità degli italiani nel donare questo prezioso mezzo per l’approvvigionamento cibo.
Orgogliosi. Tuc tuc e già in spiaggia, Vale ha fame ed ordina un’orata che gli viene testé servita dopo una brasatura sulla brace in un forno di fortuna a lato del chiringuito, tra le fresche frasche. Io succo d’ananas. Pranziamo, beati, Ezio ci raggiunge. Birra e poi mare. Sono ore di leggera spensieratezza dove tra un alcolico e due risate ritroviamo l’adolescenza abbandonata qualche anno fa… Sono davvero felice. Tanto, in questo momento con Ezio è stato un ritrovarsi dopo tantissimo tempo, distanti ma legati da un’arteria sentimentale la cui linfa non ha mai cessato di irrorare affetto e stima. Il nostro perenne modo di sfotterci è sempre stata una trincea contrapposta dove anziché lanciare bombe a mano, venivamo gettati viveri, pane e sentimenti. Come due lucertolone ubriache, restiamo al sole tropicale anche oltre l’abbandono da parte del Lemure in direzione di Fort per le riprese cittadine e per la slow motion time laps del sole nel punto più a sud del paese. Il sole sta per balcare e Teo non si vede, Ezio racconta di averlo avvistato mentre era sul tuc tuc diretto in Jungle, chiacchierare a piedi con qualche indigeno mentre si stava recando fuori le mura, senza poi giungere a destinazione. Saliamo a Ramussala temple ed Ezio resta sbalordito. È riuscito a scattare a quel monolitico tempio più foto che un paparazzo al lancio in mare del Principe Alberto nudo dal suo panfilo. Suona la campana, entriamo nel tempio strisciando e ad ogni colpo di gong cerco di simulare il passo con il mio tamburello, ma non riesco. Cazzo, tutti ce la fanno tranne me. Ezio mi guarda di traverso, intervallando imprecazioni quali deficiente, rimbambito, ma possibile che… Persino il suonatore di gong ogni tanto apre un occhio dal suo sussiegato trance per insultarmi silenziosamente con un’occhiataccia. Basta mi sento umiliato, striscio verso l’esterno lasciando Ezio, altri tre turisti ed un cane sdraiato verso l’uscita, mentre Ezio, inginocchiato come una sfinge, si trascina all’altare centrale rimettendo al povero Buddah tutti i suoi innumerevoli, inconfessabili e inverecondi peccati. Immortalo il momento per ridermela poi in privato con Teo. Mentre in tuc tuc sfrecciamo nel preludio vespertino di quella che sarà l’ultima notte cingalese, mi mostra dei Buddah acquistati in un negozietto realizzati in polvere di pietra. Mi faccio dettagliatamente raccontare dove e come, partirò l’indomani alla ricerca di questi pregiati manufatti in posizione del loto. Mentre il tuc tuc sfreccia sulla via che dalla spiaggia corre verso il centro di Galle, leggo di tutto, dalle insegne, frammenti di cartelli in legno, segnaletica stradale bilingue, teli plastificati che ricoprono camion e tuc tuc, sacchetti della spesa, cercando di individuare anche oggetti dimenticati per strada, e mi immagino il flemmatico pensiero applicato alla grafica e alla realizzazione degli stessi; comunque pur sempre originale e per nulla opprimente e sfrontata come sul continente. Camera. Lavaggio, sistemazione della nostra splendida alcova al primo piano sul veron dal pavimento in tek scricchiolante. Già provo dolore al pensiero di lasciare questa splendido angolo di mondo. Ceneremo altrove stasera, in un locale dal serendipico cortile interno, l’Heritage, circondato da forni e alberi tropicali, luci calde e soffuse e un cielo blu blu che come un laghetto riflesso è incorniciato dal tetto del cortile quadrato foderato di tegole rosse. Conosciamo Chiara, una ragazza italiana appena giunta in Sri Lanka, sola, con biglietto preso il giorno prima. Lo sguardo assonnato porta addosso ancora i segni del jet leg, ma ciò non la rendono assolutamente noiosa o di poca compagnia, anzi. Chiacchieriamo amabilmente tutta sera. Notte. Adieu.
22 agosto
Mentre i miei compagni dormono, io mi levo alle 6. Vago solo per i block esterni alla cerchia muraria e mi dirigo a est, in direzione delle piccole bancarelle in cui Ezio è riuscito ad acquistare un paio di Buddah in polvere di marmo per niente male. Ecco, si, perché in questa vacanza devo dire la verità, l’unica cosa che mi è mancato è lo shopping. Nulla, si gira chilometri e chilometri macinando la speranza di poter trovare un simbolo, un orpello che fissandolo nelle lunghe giornate invernali, possa riportare la mente a quell’esatto momento. Non è forse proprio questo il vero significato del souvenir? Si ecco, quando ero più giovane e squattrinato, i souvenir consistevano in foglie essiccate, sassi, sampietrini e cimeli raccolti qua e la. Con gli anni, la mania è diventata un’ossessione compulsiva, la stessa ce mi spinge ora a percorrere la Wakawella Road in direzione si Sangamithpura alla ricerca di un coccio o, di qualche tegame o di lembo policromo per ricavarci una tenda per la camera da letto. Nulla. Non trovo nulla. Torno dopo circa un’ora alla base, depresso e con l’intenzione di effettuare una nuova sortita mentre gli altri ancora dormono. Ita fiat – così sia! Fatti i bagagli, quatto quatto, dopo circa un’ora riesco di corsa con le mie 3000 rupie in avanzo. Ripercorro come Pollicino la medesima rotta precedente, cabotando le bancarelle del mercato del pesce che sbucano dalla battigia come per magia, al rientro delle piccole imbarcazioni di pescatori. Mi avvicino ad un fruttivendolo, vorrei tanto acquistare una cassetta di legno per i pomodori che però, non mi vogliono vendere, anzi, quel pezzo di grezza artigianalità asiatica, viene maltrattato dinnanzi ai miei occhi con tale brutalità da farmi pensare che ciò stesse avvenendo come per dissuadermi o forse perché nella loro semplicità, hanno intravisto un pelo di insolenza (assolutamente no) nella mia richiesta. Demordo, ma almeno, nel frattempo alle mie spalle, il signor venditore di Buddah, che in realtà si occupa anche di piccole immaginette in vetro ed altarini, alza la saracinesca. Sono le 9,30 e insieme a quello sferragliante rumore, si apre anche il mio cuore. Mi lancio all’acquisto, compro. Contratto e felice mi porto via un Buddah grande e un paio piccoli.
Un taxi ci carica. Ci pigia e ci sbatte dinnanzi alla stazione. Si arriva alla stazione centrale di Galle, un piccolo edificio da cui sembra spostarsi il mondo intero, laddove i sogni pesano quanto i bagagli che i passeggeri cingalesi recano con sé. Noi non siam da meno, tant’è che per riuscire a spostare tutti i nostri carichi, dobbiamo studiare una soluzione che riesca a ripartire i compiti; chi resterà al pattugliamento bagagli, chi si accoderà per i biglietti del treno, chi passerà i bagagli oltre al tornello rotante per bypassare il controllo senza essere travolti dalla folla. Umidità e aria viziata, oltre che al forte odore del carbone bruciato contornano questo siparietto degno di una transumanza, umana (sostantivo femminile che poco si confà…), più simile al genere animale. Teo regge la sua sigaretta serrata tra le labbra, al centro e ne aspira avidamente il nettare come se fosse una cannuccia fuoriuscente da una bottiglia di coca cola. Ezio scavalca, sovrasta come il Burj al Arab dubaiota la folla sottostante e per comunicare con il piccolo bigliettaio serrato dietro alla parete di vetro come una mummia inca in una teca a Cuzco. Ezio si estroflette come una gru in un cantiere edile, raccoglie 4 biglietti in seconda classe, l’unica disponibile, e ce li passa. Il passaggio avviene contraendo l’addome per passare insieme gli zaini incollati alle spalle e al torace. Passati. Frullati. Una corpulenta mamy australiana bionda, ci accoglie molleggiando sulla sua simpatica mole strafottente, raccontandoci di aver abbastanza marijuana in corpo da sedarla per un mese, in quanto lei, li ci è arrivata non per turismo, ma bensì per cure odontoiatre. Gelo. Soprattutto nel volto di Teo, che apotropaicamente serra ancor di più le sue labbra sulla sigaretta come se dovesse aspirarne lo spirito protettivo ed evitare l’intromissione di odontoiatrica mani cingalesi al suo interno. Arriva il treno. Ma per il colpo apoplettico che ci viene inferto, simile allo schianto di una fregata in un porto, il treno giunge così carico di anime che definire stracarico sembra essere un eufemismo. Il treno è rivestito di carne umana, ovunque tutto è coperto, foderato di uomini e donne, un ammasso di epidermidi a puzzle. A noi, grazie la rapidità dei movimenti bradipeschi, la destrezza e soprattutto grazie alla zavorra che trasportiamo, spetta il passaggio parterre tra un vagone e l’altro, sicché veniamo trasformati in una sorta di zerbini tra un vagone e l’altro. Sembra che questo sia lo spazio preposto agli stranieri. Infatti qui sostiamo noi insieme ad un paio di francesi, altri italiani e forse una coppia inglese o nordeuropea. Siamo così lerci che non facciamo più caso alle pareti o al pavimento su cui ci adagiamo. Veniamo continuamente scavalcati da venditori di gamberi fritti, giocattoli, dolci al cocco e tutte queste flessioni certamente non giovano alla nostra cervicale. Intanto butto l’occhio ai pantaloni del mio vicino, che sono così luridi da rivalutare la sporcizia generale del treno, spalmato di unto e grasso epidermico. Bleah! Il treno rantola ed avanza nel suo surreale tragitto macinando chilometri di desolata foresta tropicale e violentando una spiaggia meravigliosa incorniciar da nefasti ed incivili segno del passaggio umano, quali sacchetti, bottiglie ed altra rumenta. Manca solo un’unica sventurata disgrazia, che non sembra nemmeno poi tanto così apocalitticamente innavverabile, ovvero che il treno buchi… Dal basso miro Ezio in piedi che come un mimo, canta Lana del Rey e poi Rosin Murphy, l’ex cantante dei Moloko, che da solista sgranocchia un ruvido e piacevole italiano sulle parole di Mina e Gino Paoli. Teo accartoccia la bocca e come se ci trovassimo in Nepal esordisce con ‘ROKNOS’ (imprecazione himalayana per dire BASTA!), povero, quasi senza rendersi conto di essere altrove. Si perché di tante brutture viste in passato, con questo viaggio abbiamo toccato il limbo igienico e sensoriale, tanto da rimpiangere i mezzi nepalesi ed indiani. Ore ed ore. Tante, troppe. È pomeriggio ed anchilosati rotoliamo da quel catafalco arrugginito nella bianca stazione di Fort Railways Station nel quartiere di Pettah, che in cingalese significa ‘mercato’. Ezio si è ripromesso che l’ultimo giorno lo vorrebbe trascorrere in un hotel ad alto livello, comodo, pulito, e soprattutto con un letto consono alla sua dimensione bislunga. Ci ospiterà per il tempo restante prima della nostra partenza serale, subito dopo cena. L’Hilton di Colombo svetta in Lotus Road incastrato tra il Beira Lake e l’Oceano Indiano. Struttura di una decina di piani di fronte al Sri Sambuddhaloka Vehara, forse il palazzo presidenziale, che con i suoi lucenti marmi e la sua accogliente piscina, sarà nostro ospedale ayurvedico. Doccia, giusto per non lanciarci in piscina e lasciare un alone scuro tutt’intorno e poi giù. Siamo re e regine del nostro piccolo palazzo, lindi e pronti alla rilassante abluzione. Sono il primo a ridocciarsi (solo per non esser mal guardato dal lifeguard) e mi lancio, seguito dal Lemure e da Teo. Ezio agguanta una birra, la prima di tante, che lo ridurranno alla stregua di Sue Hellen nel giro di poche ore. Piacevole, in cielo qualche strano uccello plana, e in acqua oltre a noi non c’è nessuno. È nostra e basta. Le altissime palme ondeggiano e rimano la musica che veleggia di sottofondo nelle casse nascoste tra i cespugli di bosso. Un paio d’ore poi, la brama di gironzolare per Colombo mi assale ed insieme a Vale lasciamo la comitiva per bazzicare lungo le caotiche vie che come arterie cariche di sanguinei flussi umani, si snodano nel cuore della capitale. Immensi spazi dove vengono venduti caricatori per cellulari a peso come se fossero ostriche, indumenti intimi, e altre brutture. Noi solitari che cerchiamo pregiati the e spezie, trovati con non poche difficoltà in negozi dall’aria muslim (ma non siamo sicuri). Null’altro ci incuriosisce tranne un tempio policromo di Shiva in cui figure antropomorfe si accavallano le une alle altre ricreando il nostro stesso viaggio Galle – Colombo. Sotto di essa, quasi di fronte ad una moschea a righe amaranto e panna facciamo un piccantissimo spuntino in ristorante take away vegano, rothi e samosa diabolici paralizzano lingua e palato. Tutto in un secondo, la nostra piccola Hiroshima esofagica. Lacrime copiose e pesanti scendono lentamente, mentre con una mano accenniamo un ‘no’ al secondo tentativo da parte del cameriere di lasciarcene altre. Rientriamo strisciando in direzione hotel, sperando di poter trascorrere ancora un paio d’ore di piacevole sollazzo. Ezio, come testé dicevo, è alticcio e come un enorme iguana, affianca Teo, che spiaggia sulla sua sdraio come un satrapo persiano, privo di calumet ma con siga perenne in pugno. Nuoto fino alla tv posta sotto al bar dove viene proiettano un ipnotico programma di wrestling asiatico. Sott’acqua le luci rendono l’atmosfera degna di una villa californiana, e la temperatura esterna, che da poco inizia ad abbassarsi, davvero piacevole. Risaliti, doccia e pronti al buffet nel ristorante dell’hotel. Magnifica cena, il cui prezzo è certamente di lunga inferiore alle proposte culinarie. Contiamo le ore, i minuti e quel poco che ci manca per riportare i ricordi a molti chilometri più ad ovest. In questa vacanza ho amato e sofferto, scherzato e rimuginato, cos’altro di più umano di quanto descritto? Con i miei compagni di viaggio, persone tra e le più importanti della mia vita. Sono stato molto fortunato.
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