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Thailandia e Malesya

Thailandia e Malesya

Thai suvalai… giardino thailandese

Departure-icon 30/07/2006 - Arrive-icon 21/08/2006 2

Esotica, toccata da una coda di leggero monsone, tropicale, terra delle danzatrici addobbate come lampadari viennesi tolti dalla reggia di Schönbrunn, esili creature danzano a ritmo di campanelli, con movimenti simili ad insetti, a mantidi religiose in elegante assetto di guerra, pronte a decollare con un gesto improvviso, il povero compagno, dopo un fugace amplesso. Thailandia. Io e Bea, dopo un paio d’anni dall’ultima avventura egizia, decidiamo di partire. Piano 1: un po’ di Bangkok, qualche ronzio nei dintorni e poi si pensa al sud, con le sue lussureggianti e lussuriose isole prese d’assalto dai turisti di tutto il mondo.

Milano, sono le 7,30 e ci troviamo su un bus incastrato in tangenziale, affollata e quasi al limite dello stallo. Ricevo una chiamata di Carlina, la mia cugina hostess che nell’elenco dei passeggeri scorge il mio nome… Che carina, sono un paio d’anni che non la vedo ma di lei ricordo quanto fosse bella da giovane, in una foto della mia comunione.

Bea sembra non dar peso al ritardo, io invece cado in ansia. Odio i ritardi ed odio me stesso di essermi cacciato in una situazione prevedibile, ovvero la tangenziale milanese il 31 di luglio. Mentalmente cerco di addossare le colpe alla Bea, rivedendoci come due oche spaesate al check in chiuso di Malpensa, dopo esserci lasciati sfuggire le nostre vacanze sotto il naso. In tutto questo quasi dimenticavo di dire che il volo sarebbe partito alle 11. Miracolo. Poco dopo il bus, che causa ansia ivi contenuta sarebbe potuto esplodere, ci scarica in aeroporto. Formalità solite, svolte velocemente, la Bea con occhi dolci, implora una toilette, aggià, pipì ogni 20 minuti, agli ordini. Si parte, volo della Qatar Airways, mezzo chilometro di velivolo, immenso, che ci sbarcherà a Doha in Qatar per scalo. Codesta città non è una trascurabile meta, ma bensì una delle più assurde località globali e globalizzate del pianeta, con l’aggiunta di un clima che definire ostile è poco, trattandosi di agosto. Scendiamo dall’aereo, ore 15 circa, non un bus ad attenderci, ma solo la forza delle nostre gambe per percorrere i 200 metri in direzione dell’edificio atto all’accoglienza, tutto sotto il sole cocente. La spianata antistante è una lastra infuocata, quella che sembrava un innocente piana di asfalto nero, a quell’ora ed in quelle condizioni climatiche, è risultata essere una sorta di tortura. Fuoco cammina con noi (Twin Pakse, 1989). Dentro, all’interno della hall, sembra la Groenlandia a dicembre, e come possano far coincidere così amabilmente due climi tanto dissimilmente invivibili è prerogativa solo degli arabi. Sosta e si riparte. Film, Bea in attacco allergico, giungiamo all’Aeroporto Internazionale Don Mueang.

Bangkok alle 5 del mattino. Bea sembra stiracchiarsi come uno scoiattolo a Central Park, mentre attendiamo un taxi per una destinazione ovviamente a me sconosciuta: Chaosan Road, un quartiere affollato di turisti backpacker, con i loro zainoni carichi di avventura e sogni. Da subito si vedono cose strane tutt’intorno, un dedalo di stradine che si intersecano ed addirittura finiscono in abitazioni, o seminterrati. Sottili rivoli d’acqua contornano le stradine, dove pareti policrome e tendaggi sdruciti inondano l’aria tipicamente orientale di quel formicaio umano. Bea entra in uno di queste strutture rampicanti, una piccola giungla di cemento, lasciandomi in custodia le zavorre, impensabile trascinarle sulle scale pericolanti in legno. Mi esercito nel memorizzare il nome, ma non riesco. Impronunciabile, cacaon, khiashan…Mi accendo una sigaretta, mi passo le mani tra i capelli scarmigliati e cerco di far riflettere alla lamiera lucida che ricopre un tuc tuc parcheggiato davanti, la mia immagine. Ciò che si intravede non è confortante, un paio di calzoni rissi della tutta, mi pendono umidicci dai fianchi, quasi non volessero restare a loro posto. Infradito verde cambogiano, e maglia nera, sudicia. Mi sento lurido, annichilito dalla stanchezza e coi crampi muscolari. Mi accascio sul marciapiedi, minuti interminabili, dove vengo rapito da una turrita viaggiatrice olandese, che ancora avvolta dagli eccessi notturni e recante sul viso i postumi di una sbronza epocale, agguanta ad un modesto ma terribile banchetto di fritture miste, qualche mostro tipo ragno o cavalletta. Ho i conati. Bea, muoviti… ma nel mentre passa una bici e mi schizza addosso i resti di una pozza d’acqua, quasi volesse destarmi dai miei pensieri torbidi e dirmi: caro, sei in Thailandia, mica a Notre Dame… Arriva la mia amica, non la vedo appagata dalla visita, e per non esserlo lei, chissà cosa le avranno mostrato. Altri due alberghetti in fondo alla via, fino a giungere poi in quello che secondo lei era l’essenza di quella città, una piccola topaia, color verde pavone, sul cui pavimento c’erano due materassini, afa e calore, un’umidità da foresta pluviale. Welcome, recita un cartello bilingue in plexiglas che ondeggia sulla porta in lamiera laccata.

Krung Thep Mahanakhon Amon Rattanakosin Mahinthara Yuthaya Mahadilok Phop Noppharat Ratchathani Burirom Udomratchaniwet Mahastan Amon Phiman Awatan Sathit Sakkathattiya Witsanukam) è il nome originale di questa megalopoli, il cui significato è ‘Città degli Angeli’. Percorrendola ci troviamo poco distanti dall’uscita del quartiere, in una piazza rotonda adorna di colorati elefanti che si prostrano al cielo, poco più in la, si scorge l’immenso Chao Phraya, il fiume color nescafé che l’attraversa da nord a sud. Bangkok sorge su un terreno molto friabile, si calcola che ogni anno questa megalopoli scivoli giù verso il livello del mare di qualche centimetro. Un disastro, altro che chiamarla ‘città degli Angeli’. Questa città è sorta dopo il totale abbandono della vecchia capitale Ayutthaya. Passeggiamo in direzione del Grande Palazzo Reale, Phra Borom Maha Ratcha Wang, sede della monarchia dal 1782, nel quartiere di Rattanakosin. Varcato l’arco di accesso, si ha una visione magica, una inossidata e variopinta meraviglia rivestita interamente di microscopici frammenti di mosaici in vetro e specchio, una sorta di riverbero magico che si lascia scivolare addosso una pioggerella quasi vaporizzata. Un insieme di edifici religiosi di stili ed epoche diverse che funge sia da palazzo reale che da complesso monastico.

Tutt’intorno una cerchia muraria merlettata di un bianco immacolato, contrasta con le policrome pareti; ogni edificio dalle svettanti cupole dorate è sorvegliato da demoniaci guerrieri a protezione del re e della sua famiglia oltre ad esserlo del Wat Phra Kaew, il tempio del Budda di Smeraldo, (Vat Pra Chèo), il cui piccolo ingresso conduce i visitatori quasi ipnotizzandoli, lungo un porticato dalle pareti interamente coperte da affreschi raffiguranti gesta epiche del regno del Siam. Questa è la Galleria del Ramakien. Un paio di ragazze thailandesi siedono sulle loro impalcature in bambù, dove pazientemente riportano all’antico splendore i disegni dorati. Piccoli omini dalle corone gugliate cavalcano uccelli simili a struzzi, deliziosamente e maniacalmente rifiniti, incisioni di inenarrabile bellezza. L’accesso è consentito solo se l’abbigliamento è ritenuto consono, come recitano i cartelli e come ci viene indicato da una guardia. Fuori dal colonnato uno spettacolo incredibile, dove templi luccicanti, colonne di ogni colore, statue rappresentanti antichi guerrieri thailandesi, Chedi (reliquiari) dorati e altari dove i visitatori ed un viavai di fedeli buddisti accendono bacchette d’incenso e donano fiori, riso e offerte in denaro. L’ingresso al maestoso tempio è permesso solo se scalzi, un pavimento in marmo splendente, tutto sembra essere così magico e cristallizzato nel tempo. Persino la chiassosa ed opprimente Bangkok sembra essere stata ermeticamente chiusa fuori dalle pareti, coi suoi clacson, con la sua insaziabile e inopportuna vivacità. Il tasso di umidità sfiora limiti quasi insopportabili, Bea cerca un bagno, lo trova e giunti in prossimità del Giardino Centrale, ci adagiamo per ristorarci un pochino.

Intorno a noi edifici il cui stile ricorda un ibrido tra il tradizionale fiorentino e le tipiche pagode orientali. La corte e sala del trono di re Rama V, sono interdette ai comuni mortali, mentre c’è possibilità di visitare un museo dedicato alle armi, no grazie…

Uscendo da questa esperienza ultra sensoriale, coi capelli arruffati dall’umidità e un po’ di stanchezza, ci trasciniamo su un lunghissimo marciapiedi nella speranza di saltare su un tuc tuc. Un baby-monaco avanza mollemente dinnanzi a noi, un topo grossi come un coccodrillo percorre perpendicolarmente la strada, un paio di passerotti si contendono del riso caduto sull’asfalto e tutt’intorno un frastuono di clacson e rumori di ogni genere subissano i venditori di splendidi santini in creta racchiusi in piccole teche di vetro, restano adagiati sui bordi delle aiuole.

Uno spericolato tuc tuc nero petrolio dal tettuccio verde, che risponde al sinistro nome di Devil’s Tank, ci carica e si mette ad ondeggiare sotto i cavalcavia delle sopraelevate super strade stile Blade Runner. Siamo un po’ spaventati, ma con Bea si ride sempre, e soprattutto di qualsiasi cosa, tiene un saggio pensiero o una battuta da scompisciarsi sempre in tasca. La guardo, la osservo, oggi è vestita come Maria Antonietta segregata alla Concierge prima del patibolo…. Il diabolico coupé ci scarica al pregiatissimo complesso architettonico del Palazzo Vimanmek costruito nel 1900 durante il regno del re Rama V. Usato per breve tempo come palazzo reale, è la costruzione in teak più grande al mondo. Lucido, caldo, circondato da un verde quasi fluorescente. Un altro piccolo angolo di paradiso. Dopo circa un’oretta, torniamo in Chaosan Road, mentre passeggiamo acquistiamo qualche T-shirt a pochi bath, su montagne di tessuti che ci lasciano esterrefatti. Bea va in tilt, io pure. Tornando in direzione albergo, tra le pareti umide tipo ospedale MSF improvvisato nella giungla, una sorta di gulag per la rieducazione socialista del regime cambogiano, mi fermo per acquistare uno di quei letti pieghevoli triangolari che adornano i salotti thailandesi, una sorta di futon pieghevole. Bea mi fa bellamente notare che siamo solo al primo giorno, che tutta la Thailandia è piena di questi pesantissimi cuscinoni e che non era il caso di acquistarlo ora, per asinarselo per tutta la vacanza. Non l’ascolto. Voglio che il letto viaggi con noi. Dopo una doccina, Bea ha l’illuminante idea di catapultarci in un mega mall a caccia di vestiti e di un piatto da mangiare che non sia sfracellato su una foglia di banano per strada.

Una via stracolma di super centri commerciali in vetro e acciaio, costruzione che sembrano scendere dal cielo anziché il contrario, lusso, caos ed una variegata (ma educata) popolazione convive civilmente all’insegna del progresso. Ogni edificio, strada ed addirittura la gente comune, per non parlare delle scolaresche, recano bandiere e vessilli gialli simbolo della monarchia thailandese, retta da 60 anni da Bhumibol Adulyadej Ramadhibodi Chakrinarubodin Sayamindaradhraj Boromanatbophit, che detiene il primato del regno più lungo nella storia recente, oltre ad essere l’uomo più ricco del paese (e il più amato). Bhumibol appare su tutte le monete, le banconote e nei ritratti che adornato tutti i luoghi pubblici. L’anniversario dei 60 anni di regno rende a suo modo unica la nostra permanenza in Siam. L’escursione termica tra l’esterno e l’interno è davvero notevole. L’aria condizionata la fa da padrone e noi siam poco, troppo poco coperti. Montagne di magliette, calzoni e ciarpame in ogni angolo del mall, dopo poco inizio ad avere conati a causa di quell’odore di stampe tipografiche con inchiostri tossici. Bea invece saltella tra montagne di stracci, arraffando per tutti, per la Dona, per Fil, etc etc…. sciorina nomi come se dovesse vestire un’intera scuola. È caduta in un loop, indemoniata, le mani no le bastano, quasi passa alla bocca per sostenere gli acquisti. Io la seguo e con sguardo basito trascinando le mie due magliette da teenager daltonico… Ci aggiriamo per il mall, nei cui piani c’è di tutto, dai cavi elettrostimolatori anticaduta dei capelli, allo smalto per unghie della durata garantita di 60 giorni, dai completi in rayon tende-tovaglie-tappeto tutto coordinato in fantasie pure ‘chinoise’ ai servizi in ceramica finto vittoriano. Tutto, tutto, tuttissimo! Per non farci mancare nulla, Bea propone un film nel cinema multisala che proietta in lingua thai sottotitolato in inglese, perché no? Non entro in un cinema extraeuropeo dai tempi del mio peregrinare solitario nei cinematografi istambulioti, per spararmi film in turco del calibro di Ghost Ship e Slap her, she’s French… La proiezione è Miami Vice, con Collin Farrel, la sala è vuota, completamente deserta, la proiezione del tardo pomeriggio non attira pubblico, si vede. Ci sediamo a metà sala, non capisco perché l’idea di trovarci al centro non ci garba, oppure perché i nostri biglietti riportano numeri intrappolati tra scritte siamesi di difficile interpretazione, per cui optiamo per una doppietta laterale sinistra. Vestiti leggeri, epidermide leggermente umida, non ci resta che spartirci l’unico foulard in tela rosa della Bea. Si gela, da tanta aria condizionata, la nostra copertura di fortuna non sta ferma. Stringo le gambe, quasi non trattengo la pipi ad ogni starnuto, mentre miss-la-devo-fare-sempre stranamente non lamenta immediate esigenze, forse, stavolta, le si è davvero congelata la vescica. In ogni caso, resistiamo davvero si e no 15 minuti, prima di incrociare gli sguardi e capire che la fine dell’esperimento era giunta. Rattrappiti ci rifugiamo in un ristorante vietnamita, dove, con non poco sospetto ingerisco una brodaglia calda che si chiama Fhò, Pho, Fò… Ridiamo come matti, la Bea è fantastica quando si getta in queste descrizioni etno-sociologiche stile darwiniano. Taxi taxi, la città degli Angeli oggi ci ha un po’ sfrancicati, per fortuna domani un bus ci porterà a Surat-Tani, dopo un 8 ore di viaggio, si va verso le isole del sole e del relax. Dormire su quel materasso o per terra, sembra essere la stata la stessa cosa. La Bea lamenta prurito, io fratture vertebrali. Devo aver russato così forte da trasformare a Bea la notte in un incubo… La guardo, ha gli occhi iniettati di sangue, ma sostiene che sia solo per il prurito. Forse i ventilatori che dal soffitto multicolor sparano costantemente una brezza su di noi, come l’Eolo botticelliano.

Non sembra vero, quando il bus si adagia lentamente su una esplanade di terra battuta color pelle sioux, che spancia sui bordi verdeggianti di una foresta pluviale che sbuca vorace dai margini stabiliti dalle auto e dagli uomini che sciamano in attesa di un qualcosa che li rimorchi da qualche altra parte. Un altarino al Budda, qualche casetta degli spiriti, che come piccole casette per il ristoro degli uccellini, adornano i lati. Gli zaini sembrano macigni e il divano acquistato è ormai un oggetto di fantozziana memoria. Passa qualche ora, o forse meno, chi lo sa. Afa e mostri volanti riecheggiano e ronzano sui cadaveri delle bottiglie di birra lasciate dai turisti nordeuropei a guisa del loro vandalico passaggio. Arriva, saliamo, si parte. Una sorta di barca superveloce, il cui rincaro sul prezzo certamente non l’avrà resa tanto diversa da quella un poco più lenta, ma chissene, altre 3 ore di su e giù, e veniamo gettati a Ko-Samui, la bella e tropicale isola del divertimento. Teeeeerrrrraaaaa! Le ginocchia fanno giacomo-giacomo, ma non per molto, un’altra imbarcazione è pronta al piccolo molo per portarci a Tong Nai Pan. Bea mi fa morire dar ridere, in barca ci sono due giapponesine mignon, vestite come le principesse della Galassia, per circa due ore subiscono incessantemente i colpi degli zaini di altri viaggiatori, sulla pelle del loro viso eburneo, arrossato, senza proferire lamento. Bea non fa che stringere le sue cosce come se dovesse proteggere un ovo durante a cova, lamentando impellente desiderio di far pipi. I miei calzoni rossi hanno preso a lasciar colore, la mia maglietta bianca per metà è diventata color sangue, sembro una cheese-cake rovesciata, mentre Bea, look addicted, sembra Laura Hingles, della famosa fattoria americana, con una nota punk, le piccole unghie smaltate… Kho Pan Gan è una delle tre isole, forse la più trascurata, e questo nei ricordi di qualche precedente soggiorno della Bea, la rende unica. Al molo di attracco una jeep scoperchiata carica noi due poveri esuli e una coppia francese, andiamo in direzioni opposte, ma l’autista si dice pronto al trasporto del gruppo. Un’unica strada rossastra, sterrata, tra le verdi e floride palme, agavi simili al paradiso terrestre, la jeep salta, rimbalza e ci sballotta come trottole. Verso Thong Nai Pan Yai, angolo sperduto e puntellato di bungalow sulla spiaggia, poco turismo e qualche banda di immancabili cani randagi. Il bungalow è molto carino, piccolo, 4 metri quadrati in cui si trova un letto ed un angolo doccia, tutto in legno, con terrazzino. Un coccio di noce di cocco, una candelina galleggiante, qualche foglia e l’arredo del dehor è pronto! Una scrosciante pioggerellina scende e ci impedisce di andare sulla spiaggia a due metri da noi. Spettacolo meraviglioso, sole a pioggia si alternano in una piacevole danza di cristalli e piccole rifrazioni luminose, mentre oltre la linea dell’orizzonte, dense nubi color antracite coronano i bordi del mare. Bea desidera piluccare qualcosa, io pure, ma indietreggio di fronte alla mia linea (persa) dopo un’intera stagione di stravizi. Andiamo al bar fronte mare, un bel parterre orlato di mattoni alternati a fessure che ricordano molto le cascine lombarde, gentili ragazzi avvolti nella tipica t-shirt monarchico-commemorativa del genetliaco e le flip flop bianche con metà suola e laccetti color turchese. Le desidero tanto anch’io. Thai rice ed omelette da portare nel nostro nido. Zampetto velocemente e mi destreggio tra le bande di cani affamati, Bea, terrorizzata, indietreggia come se si trovasse in mezzo a dei pirahna… Ci rido su e la prendo in giro, cosa che lei, terrorizzata da questi animali frutto di incroci variopinti tra labrador e pincher, dalmata e boxer e chihuahua e doberman, non prende molto bene. Cibati, nutriti, attraversiamo la via sterrata in direzione del piccolo centro abitato.

Disseminati sul percorso, le famose case degli spiriti costellano il verde paesaggio tra palme e buganville. Giunti a destinazione, metto le mani su un’amaca verde acido, ideale per il sollazzo in veranda, qualche candela, le sigarette e il tiger balm per le zanzare. Sulla strada del ritorno, mentre dei tuc tuc sfrecciano tra motorini infangati, evitiamo di essere travolti per non provare l’ebbrezza dell’ingessatura asiatica. Spiaggia, sole, relax, che goduria. Leggo il mio ‘Un indovino mi disse’ di Terzani, meraviglia, dono emaciato e consunto della Bea che me lo suggerisce come lettura di viaggio. Bea lamenta pruriti e fastidi non ben identificati, che le danno tregua solo entrando in acqua, come usano fare i quadrupedi locali per disinfettare l’epidermide dagli assalti dei parassiti. Grande è la gioia, questa nostra meta raggiunta senza non poca fatica ma che ci sta dando enormi soddisfazioni. Giunta la sera, non si può che cenare nello stesso ristorante, con lo stesso menu, unico aggiunta, un cocktail prima e dopo, al sopore dei millefrutti mescolati ad alcol. Cala la sera, io inizio a roteare le pupille come i camaleonti, segno che il mio cervello è già caduto in trance da un po’, e mi dirigo meccanicamente in camera, come un robot, Bea vorrebbe fare una conversazione, cortesia concessa a ridosso di un’amaca, con candeline e delle birre. Ci raggiungono due ragazzi inglesi nostri dirimpettai. Si beve insieme, mentre muoio silente nella mia narcolessia grave. Alba. Sole che filtra, vedo le mie infradito che mi sorridono allineate proprio sul fascio di luce che filtra dalla porta socchiusa. Il mare placido vibra sotto la leggera brezza post-monsonica che lascia dietro di sé pozzanghere giganti frutto di una copiosa pioggia mattutina. Sono le 8 circa, Bea mi confida di non aver dormito molto, forse un po’ colpa del mio russare, anche se lei nega essere la causa principale. Mi accenna a ponfi rossastri emersi nella notte. Non riesco ad osservarli bene all’interno della cupa capanna, dopo una doccia sua e mia, riprenderemo il discorso. Adagio adagio voltiamo verso il bar, l’unico, il solito, ma ormai famigliare. Nessuno oltre a noi fa colazione, forse dimentichiamo che la notte è lunga in Thailandia, e queste isole sono un vero paradiso per la gioventù agguerrita. Un trucido caffé lungo un calvario, dei biscotti al burro di cocco e un pancake non male aprono le danze. Bea mi mostra i segni emersi durante la notte, sono come piccoli crateri rosso ciliegia dalla cima innevata, quelli che da ragazzino chiamavo i bubboninja, indesiderati e molesti brufoli pronti all’attacco. La tranquillizzo, mentre lei con le sue zampette dalle unghie smangiucchiate, cerca di procurarsi sollievo. Le prometto poi un massaggio con tiger balm in spiaggia. Ci dirigiamo alla playa, un dolce venticello concilia riposo e spensierata giovialità laddove iniziano a sbucare cadaveri delle notti folli. Bea, soprannominata Pom-fo-Lon (siamesizzazione di Ponfolona) si accascia in attesa della visita del dottor Tri-ke-Con, (io, per la mia leggiadra silhouette, sempre frutto dei bagordi invernali), che da vero maestro del qualunquismo medico fattucchiere, declasso a punture di zanzara… Bagnetto in mare, rigorosamente a pochi metri dalla riva (selacofobia spielberghiana), con l’acqua praticamente che lambisce i fianchi. Alla Bea tutto ciò giova e per qualche ora non si lamenta di questo (ma della diuresi accelerata, del sole che scotta, della crema solare poco protettiva e della troppa voracità letteraria che presto la lascerà senza libri da leggere, si!). Pioggerella, rientriamo, bar, aperò di arachidi e un fruit cocktail ci tengono compagnia mentre si sognano avventure cavalleresche con bande di ubriachi europei… Ce la ridiamo, la vedo rientrare in Italia con cane adottato in loco e fidanzato tedesco che con una mano regge una Paulaner e nell’altra la canotta sfilata e l’immancabile marsupio multicolor. Passeggiata in paese, raccogliamo enormi foglie lignee di palma, quelle che poi di solito vendono in occidente come svuotatasche, ne raccogliamo alcune a testa, noncurante del materasso abbandonato in tenda che mi asino da Bangkok. La nostra capanna è molto accogliente, il terrazzino ha ormai un’aria lounge e un angolo bar atto all’accoglienza degli ospiti, soprattutto i neozelandesi o australiani squotter che promettono bene in fatto di trasgressione. Arriva la sera, e a nulla è valso l’ordine ingegnoso delle tecniche messe in atto, dall’ululato licantropico, al battito di mani, al canto, le candeline e persino l’ostentato bikini vespertino della Bea, che nonostante la brezza, continua a mostrare lussuriosamente. Ci beviamo su talmente bene che ci si trova nella capanna senza nemmeno essercisi accorti.

Altro giorno, altri dolori, ovvero, altri ponfi.

Chiediamo ad un locale che declassa le nostre paturnie semplicemente definendole ‘mosquito bites’. Un paio di palle, sono raddoppiate e soprattutto, perché solo a lei? I suoi crateri iniziano ad estendersi come piccole cordigliere innevate sui polpacci, avambracci e sulla schiena. La capisco, inizia a soffrirne un po’. Dopo un bagnetto in mare e qualche tampone di balsamo, sembra tornare alla normalità. Studiamo intanto un piano viaggio che ci porti in altre zone e a quel punto, la Bea ha una trovata geniale. Andiamo in Malesya, varcando il confine a piedi, nella giungla, come due collaudati Sandokan e consorte miss Perla di Labuan! Trovo l’idea meravigliosa, la Malesya varcando il confine, a piedi, perfetta come scarica adrenalinica. Quindi all’unanimità il consiglio supremo decide di boicottare il full moon party nell’isola accanto (da raggiungere di notte in barca con la possibilità di divenire pastura per pesci) e partire per altri lidi.

L’idea ci entusiasma assai, tanta felicità ed emozione. L’indomani, dopo l’ultima notte trascorsa a mirare la luna piena che avrebbe fatto vibrare il cielo e la terra nell’isola accanto disseminando la spiaggia di cimeli umani atterriti dall’alcol, un brindisi con Singha Beer locale e già, in men che non si dica, ci trovavamo già sdraiati sotto la retina di copertura a zanzariere del letto, a cospargere di balsamo di tigre i monti purpurei che comparivano e scomparivano sulla pelle di Bea come delle piccole Isole Fernandinee.

Risveglio, passeggiata in spiaggia e cappellino Nike in testa, canottiera rossa bordata di bianco, zainone in spalla e via su un jeeppone che ci conduce all’imbarco per la costa, passando per Kho Samui. Viaggio memorabile tra nausea a turisti zombie. Dopo qualche ora si approda a Suratthani, dalla stazione dei treni passa un bus localone che e da Bangkok-Butterworth. Il bus parte tutti i giorni dalla stazione di Hualamphong, a Bangkok, e arriva a Butterworth (città malese di Penang), dirimpettaia della più nota Georgetown quasi a mezzodì. Il viaggio però inspiegabilmente si interrompe a Hat Yai, una cittadina di provincia poco accogliente, è notte e il primo albergo, siam sicuri andrà bene. Percorriamo stanchi ed afflitti un quadrilatero di cemento orribile che riporta allo stesso ingresso. Una scala angusta, polvere e crepe, cemento cosparso di strisce umide di muschi tappezzano le pareti. Un albergo, per così dire, una bettolina mega. Non è ne bello ne comodo e men che meno, accogliente. Si chiama Chatai Guest Hous, ameno ed economico, camera 304 – doppia 200 bath (circa 5 euro). Ha tutta l’aria di essere un ex-mattatoio, soffitti bassi e carrelli cingolati pendono dall’alto. Persino le camere hanno l’aria di essere state stalle per animali in attesa del supplizio. Una cosa mai vista, ma è tardi e la receptionist incastrata dietro ad un bancone foderato di perline color noce, ci conduce alla ricerca della sistemazione più consona. La stanchezza e il desiderio di docciarci ci fanno scegliere la prima. Una topaiona illuminata a neon, due brandine e tutto l’immenso squallore che uno si può immaginare concentrato in 6 metri quadrati. Il bagno, postilla a sé, è raggiungibile attraverso gradini di 60 centimetri dal suolo, una lordura in cui le tubature color turchese si snodano alla pacman attraverso piastrelle (fu) bianche sbeccate unendo lo scarico del lavandino a quello della doccia sulla sua sinistra, in un dantesco dedalo di scoli e perdite calcaree. Uno schifo. La turca, pochi centimetri più a sinistra, sormonta un gradino orripilans costellato da secchielli in plastica e cestini, nefasto invito a non gettare la carta igienica nel wc, come in Arabilandia.

Dopo la doccia, ammutoliti, cerchiamo in questo inferno malesiano di prendere sonno fissando la luce al neon che spesso fibrilla e il suo adesso ventilatore a pale che oscilla su moto rotatorio quasi a voler scendere come furia divina sulle nostre teste, chiedendoci lo scalpo. Ridiamo (anche se vorrei percuoterla, ma come ben dice la Bea, lei non mi ha obbligato, ed ha ragione). Notte. Risveglio, corridoio in linoleum bordeaux bordato cremisi, pareti sudicie, più sudicie della sera precedente, grazie all’impietosa luce che filtra dalle finestre che ci dona questo spettacolo in tutto il suo totale e misero display. Il ‘breakfast include’ sindacatoci dalla poco loquace receptionist a suon di ribasso all’ultimo ringgit, si mostra in tutta la sua spettacolare pochezza. Finestre in legno a trama romboidale color bordeaux (tipico da macello) irradiano di luce un tavolo avvolto in tela cerata sbiadita marchiata Nestlé, su cui poggiano un cestino color paglia in plastica che contiene altrettanti barattoli in pvc di chili, sale e ketchup. Una sola banana (anche se siamo in due) e un portatovagliolo con stuzzicadenti dall’aria di essere stati infilati con trascurata igiene. Un caffè, una bustina di biscotti confezionati e la nostra libagione termina con sguardo torvo al receptionist che ha dato il cambio turno alla precedente pidocchia. La città fa schifo e come tale non merita nessun tipo di menzione. Treno. Saliamo. Per bere qualcosa o mangiare c’è un servizio variopinto di venditori ambulanti che salgono durante le fermate, con prelibatezze fresche e cibi confezionati.

Giungiamo in prossimità del confine, nel cuore della foresta della Malacca. Un’impenetrabile muro verde a ridosso di un macilento fiumiciattolo inquinato, putrido è la degradante sintesi dell’incontrollabile inquinamento indotto dal pvc. La dogana va percorsa a piedi, varcando il ‘limes’ tra i due paesi, si cambia alfabeto ed espressioni di saluto sopra le nostre teste. Circa 50 metri di ponte e siamo alla barriera in cui leggi e divieti spiccano differenti. Il divieto di importare in terra malese droghe, pena la morte, per esempio, fa tremare la mano, una sorta di autocertificazione degna del film Bangkok solo andata. Apponiamo le firme, qualche controllo di routine e siamo in Malesya, nella sua parte peninsulare. Un bus ci attende nell’area sterrata posta dietro la garitta dei gendarmi per portarci ovunque. Ipoh, consigliano questa città per pernottare, e poi nell’eventuale decisione di spostarci successivamente a Kuala Lumpur (Keielle, come amano definirla i giovani locali). Una jeep ci carica e ci scarica a Georgetown, nelle isole occidentali di Penang. Avamposto delle Indie Orientali, sorto per merito di Lord Cornwallis che intitolò la città a Giorgio III, contrattando l’arcipelago con il sultano di Kedah, nel 1786 o giù di li.

Oggi Georgetown ha un’aria occidentale, seria ma comunque ricca di quartieri variopinti, adagiata su un mare grigiastro e avvolta da un’afa infernale. Grazie a Dio entriamo in un bel albergo colorato, che ci accoglie con un succo ai frutti tropicali appena spremuti dinnanzi agli increduli occhi… Ristoro e collocazione delle valigie, poi via per la città. Il clima non aiuta in nessun modo, qualsiasi gesto o impresa, seppur mediocre, è resa vana. Visita al Fort Cornwallis, primo nucleo della città coloniale con le sue prigioni, i cannoni della VOC (Vereenigde Oostindische Compagnie) compagnia olandese, segno indiscusso delle accese lotte per possedere quel lembo di terra a lungo conteso. Torride prigioni, ampi spazi e quindi una sosta in un parco desolato con allegri cacatoa dalla cresta gialla, permettono alla Bea di supervisionare i suoi megafoni, che fioriscono come margherite in un prato primaverile. Sconforto, la Bea piange (e come la capisco…) non sappiamo come comportarci, ma il vero problema è che non sappiamo a chi rivolgerci se non ai santoni locali. Appunto, ne troviamo uno passeggiando nel quartiere cinese costellato di templi vivaci dai molti draghi dorati. Il mondo dei maghi e presunti medici santoni è davvero molto affascinante. Individuato l’elemento giusto, etnia cinese, età imprecisata, baffo grigiastro che giunge all’altezza del torace e giacca decorata blu Cina. Analizza la povera invalida e dopo un consulto ad alta voce con un individuo posto nel retro bottega, esordisce con la solita estenuante sentenza: ‘mosquito bites’! La Bea di nuovo trattiene le lacrime che copiose le riempiono gli occhi, segno che nemmeno il medico orientale ha capito di cosa si trattasse, ma almeno, si dice pronto a prepararle un unguento adatto, ad hoc.

Usciamo, leggermente più sollevati e tranquilli, tanto che oziando in città e ridacchiando delle architetture stravaganti, ci imbattiamo in un museo molto bello, ex dimora di un commerciante cinese arricchitosi con il commercio, e che ha donato la reggia alla città, ricca di arredi, porcellane e risciò, la Cheong Fatt Tze Mansion, con lanterne in bronzo e colonne intarsiate. Molto bello, adeso ad una via che un tempo, prima delle restrizioni locali legate alla prostituzione, si chiama Love Lane. Ecco, se devo dire una cosa, qui non avverti quelle situazioni di peccaminoso ludibrio che in Thailandai sembrano normali.

Bandiere malesi sventolano ovunque, con la mezzaluna e la stella, sono la copia islamizzata del vessillo americano. È strana questa terra, sembra che la sua identità nazionale sia alla mercé del dragone cinese. Una sosta in un baracchino per gustare della frutta e un ratto mi passa sul piede, un ratto-gatto, dalle dimensioni di un missile scud… mi si gela il sangue, la Bea ride come una matta. Verso sera il calore e i colori balcano, ma insieme anche gli odori prendono il sopravvento, dopo che lo scorrere dello stesso ha dato inizio al processo di putrefazione.

Seduti sulle nostre sgangherate sedie di plastica, osserviamo sospettosi l’origine di tali effluvi marciulenti. Potrebbero provenire da ovunque, persino dagli scarichi fognari, ma la triste verità è un’altra. Un giovane malese ci si avvicina, sicuro di essere a conoscenza della nostra sconcertante espressione, ci indica un furgoncino bianco carico di fluorescenti frutti verdi, giganti, simili a mega-licys che apostrofa, stringendo le sue narici tra l’indice e il pollice, la parola Durian. Il durian è il terrore (ma al tempo stesso, la prelibatezza) di queste terre. Il termine deriva dal malese “duri-an”, ovvero “frutto spinoso”. La sua caratteristica principale è infatti l’odore forte, acre e pungente che emana, un misto fra qualcosa di putrefatto e sudore acidulo stantio e formaggio andato a male o vecchie scarpe da ginnastica con le quali hanno corso la maratona di NY almeno un paio di volte.

Rincasiamo nel nostro alberghetto color gelato al mango, verticaleggiante, le cui belle finestre ridipinte e i corridoi balconati, danno su un vivace cortiletto tutto avvolto da rampicanti e con una fontanella dal suono rilassante.

Un cocktail, come quello ingoiato la mattina completa trionfalmente il nostro rientro tra le care e agognate mura. Usciamo per cena, una bancarella fast food è quello che ci vuole per osservare la città in movimento oltre il crepuscolo. Osserviamo questo popolo, crogiolo di razze che ne hanno affinato i lineamenti, pelle di un bellissimo colore e tratti somatici leggermente orientaleggianti. Il meltin pot giusto, rovinato purtroppo dalla perdita di fascino che arreca il look occidentale su questi popoli che altrimenti avrebbero continuato ad indossare sarong (telo simile ad una gonna che si annodano in vita) e turbante multicolor. Il tocco islamico lo si percepisce in maniera, ça va sans dire, quasi impercettibile. Ci sono moschee, ma che non sovrastano la ridondante architettura cinese, né la fantasiosa e multicolore hindù. Persino gli abito si confondono in larga parte, con l’occidentalizzazione sfrenata. Solo qualche chador indossato dalle donne riporta il pensiero alle differenze culturali. Ci dono bancarelle ricche di micro piattini in serie, farciti con purpurei peperoncini dall’aria molto aggressiva, adagiati su classici cucchiaioni da miso, a sua volta posti su piattini in plastica cinese. Ovunque, fuori dai templi buddisti e confuciani, una lieve nenia accompagnata dai fumi d’incenso, rende l’atmosfera ricca di una mistica solennità. Sembra di non riuscire ad uscire da questa ininterrotta sequenza di riti, incessanti, fin dove, in lontananza, si inizia a scorgere la cornice che costeggia il lungo mare, che in questa stagione, purtroppo sembra più opaco rispetto alle foto del medesimo luogo, di inverno. Bea è seriamente preoccupata, anche questo unguento sembra non sortire effetto, il suo corpo, come una pizza surgelata riposta in forno, ribolle di ponfi che nascono e spariscono ad intermittenza, proprio come la mozzarella che aumenta di temperatura. Mi dispiace, ma non so davvero come comportarmi, l’unica arma è quella di riuscire a farla ridere, che funzione il più delle volte, ma che spesso sortisce l’effetto opposto, scatenando in lei frustrazione e piccole accuse di accidiosa noncuranza al suo caso. Mentre all’ombra di una panchina sul lungomare osserviamo qualche piccola imbarcazione passare non lontano da mercantili enormi, forse diretti Singapore, il porto più grande del mondo, maturiamo l’idea apparentemente insana, di spostarci da tutt’altra parte della penisola, ad est, per soggiornare sulle disabitate isole di Perenthian. Si no no si no… Si, si decide di partire il giorno seguente, verso Kota Bharu, località che riemerge dai ricordi infantili, quando governavo impeti adolescenziali disegnando nazioni su fogli Fabriano e mappamondi dipinti con Uni Posca. Kota Bharu, sulla sponda opposta, ore ed ore di auto taxi, sfinente. Le vibrazioni del viaggio resteranno in noi per ore, mentre il piombo inalato potremmo smaltirlo solo dopo anni in osservante ritiro ayurvedico in un monastero in Tibet. KB, sembra un’immensa periferia che non accenna a terminare, sconfinata, e quando credi di aver raggiunto la parte che più si avvicina al mare, vieni rigettato in un’altra realtà altrettanto cupa, costellata di lampadine che penzolano da improvvisati tralicci da set cinematografico di un film di Bruce Lee. Kota Bharu non è una città propriamente di mare, lo è ma dista qualche chilometro, il che la rende abbastanza anomala, perché poggia su un cencioso ed ocraceo fiume, il Kelentan, che sfocia poco più a nord, in un mare dignitoso. Un contrasto cromatico simile ad un fantasioso accostamento alla Gaugin. KB non è molto differente da altre città provinciali malesi, piccolo nucleo policromo orientale, cozza contro i candidi edifici coloniali e mega edifici moderni coperti di cristalli ed acciaio. Poco più a sud, verso Besut (che non merita menzione alcuna) si trova il molo per le Perenthian.

Imbarcadero in cemento stile lungomare di Shangai, cielo di un turchese intenso, non limpido, ed un po’ di apprensione. La prima tappa con l’areo barca sarebbe stata Pulau Besar, ma la destinazione finale Pulau Kecil. Ore di sbalzi in acqua. Pensieri agli squalacci li sotto, ma alla fine si arriva, dopo aver toccato Long Beach. La nostra spiaggetta conta cinque capanne arroccate sugli scogli, tre occupate, una diroccata e una libera, la migliore, posta su curvi scogli a nord, simili ad enormi elefanti addormentati. Il mare è a non più di un paio di metri, la scala scende proprio sulla piaggia, e il mare è chiaramente la nostra toilette. Nell’isola non c’è corrente elettrica e la luce viene prodotta dalle candele, che insieme al riso e alle sigarette, vengono dispensate su ordinazione e consegnate in loco da una barca che fa’ la spola con la terraferma ogni due giorni. I servizi igienici si trovano all’interno del bosco e constano in un foro nel terreno e un secchiello in plastica forato, collegato ad una cisterna piovana, per la doccia, raggiungibile con una salita in gradini lignei. La lamiera svolge il ruolo di separé con il mondo circostante. La signora che gestisce questo piccolo nucleo di terra isolato dal mondo, vive sotto ad un’enorme baobab, che funge da tettoia su un tavolone gigante, dove di sera si cena tutti insieme. Riso, riso e riso. Sempre, ma che dolce far nulla. Conteggiamo i ponfi della Bea, aumentano e diminuiscono in base alle abluzioni marine. Io sostengo si tratti di un insetto che vive nel legno, perché questa reazione aumenta quando sostiamo in camere fatte interamente con questo materiale. La nostra spiaggetta lunga 90 metri e larga non più di 20 metri diventa il nostro regno, che impariamo a conoscere a memoria, come nel famoso film di Tom Hanks, Cast Away. Ci piace e ci diverte sentirci così lontani, ma quando la batteria del cellulare davvero inizia ad abbandonarmi, mi prende un groppo. Per la Bea è normale la cosa, lei nemmeno se lo è portato il cellulare. La prima sera adagiati con un succo d’arancia in lattina, osserviamo il giorno arrendersi piacevolmente al crepuscolare assopimento del sole, rosso, rosa e poi argentea sfumatura oltre l’orizzonte. Gli scacciapensieri fabbricati con conchiglie, pezzi di legno e corallo raccolti durante il giorno, iniziano la loro lenta danza oscillati da un lieve soffio di vento che punge così tanto sulla nostra pelle, tanto da farci temere un’insolazione. Ci manca, solo insolazione e ponfi. Abluzione e cospargimento dell’epidermide di crema solare. Doccia (la Bea, io continuo a preferire la salsedine sul corpo) e la soave attesa del richiamo della signora che ci convoca a cena. Ci sarà riso e uova fritte. Ma anche birra. Si paga day by day dopo ogni consumazione (come se fosse possibile non pagare o fuggire, o sparire, se non divorati da qualche squalo). Piacevole sollazzo tutti insieme, le lingue si mischiano come frange al vento tra persone totalmente sconosciute i cui idiomi prendono il sopravvento sulla non consapevolezza di parlare tutti la stessa lingua. Canadesi che parlano francese con sloveni che cercano di incunearsi in un altalenante peripezie relazionali con una coppia di polacchi. Insomma, la Bea riesce e parla con tutti, io mi chiudo ed ascolto. Ascolto e non capisco, o meglio, rido 5 minuti dopo che vengono fatte le battute, già rise e digerite da tutti. Andiamo a cuccia, sembra tardissimo, ma il sole preso e la mancanza totale di luce fa sembrare tutto notte fonda. Pochi secondi e siamo sotto la nostra veranda dove disegnami, pasticciamo e inventiamo passatempi. Si sonnecchia e si ride, si beve e mi addormento. Ronfo così di gusto che quasi mi sembra di sognare. Urla, latrati, Aiuuutoooo… È la vocina della Bea che sopraggiunge dai gradini che scendono verso l’ignoto. La cara, presa da istinti esploratori e dal solito impellente stimolo all’urinare, è discesa verso il mare, ma il suo piedino non ha centrato il gradino, ed è così che l’ho trovata appesa come un prosciutto di Parma alla veranda sotto cui dormivo in amaca. Povera, il rischio frattura alla gamba è stato esorcizzato, scoppio a ridere e lei che sbraita chiedendomi aiuto. Sembra la Morich a Scherzi a Parte! Ripescata dalla cantina della capanna, la piccola esploratrice decide che il mare può andar benissimo per le sue funzioni basilari, e si inchioda come un cormorano a un metro dalla riva. Giorno, alba, sole, colazione con caffé molto lungo, e stessa lenta andatura all’interno del nostro recinto dorato. Parentesi bagno, mai a più di 2 metri dalla riva. Ma non di giorno: con la luce è meglio sparire risucchiati dalla foresta in direzione della baracca in lamiera. Acqua cristallina ma non abbastanza per vederci sotto mostri marini. Per cui a riva, raccogliendo pezzi di conchiglie e sabbia, castelli come bimbi e periplo della spiaggia, almeno un tre volte prima ci trovarci di nuovo all’ombra del baobab. Pranzo. Riso e uova fritte. No onion Please. Ok. La giornata scorre lenta con ritmi lenti. Non credo sia lo stesso ozio che si provi in un villaggio turistico, qui la mente perde la percezione di ciò che si è lasciato indietro, arrivando sin qui, una sorta di ancestrale desiderio al dimenticare persino quanto ancora abbiamo nello zaino. Un taglio non equivale necessariamente ad un cerotto qui, non qui, ma bensì al sollazzare il piede in mare. La calura non ad una coca fresca ma a preziosissima acqua naturale. Il cibo è riso, il riposo è amaca, la doccia il secchiello bucherellato. Tutto risponde logiche differenti, a tratti è piacevolmente disorientante. Sembra un reality.

La mia naturale predisposizione al indaffarato e a volte insensato senso del dovere, mi portano a raccogliere pezzi di conchiglia e cordicelle, legnetti e tappi, per produrre scacciapensieri da appendere sulla nostra veranda. Anche la raccolta dei pochi mozziconi disseminati riesce a distrarmi, come del resto l’acceso desiderio condiviso con la Bea, di fare una passeggiata, ci porta a cospargerci di Autan ed infilarci nella selva alle nostre spalle. La geniale idea di andarci in short e infradito fa si che un po’ la faccenda si complichi. Piccoli Indiana Jones, senza un briciolo di quel mac-giverismo che avrebbe potuto salvarci dalle agavi pungenti e dai rami graffianti. A metà strada ci imbattiamo in un’altra piccola spiaggia, con un ristorantino semidistrutto, color rosso mattatoio, in cui un ragazzo ciondola tra il bancone e i tavoli, servendo qualcosa da bere.

Azzanniamo bevanda in lattina, succo, che tracanniamo in letizia mentre faccio conta sui lividi lasciato sul mio corpo. Bea, nota con felicità che i ponfi sono quasi completamente spariti. Torniamo dopo un percorso di un paio d’ore, al punto di partenza. Un miraggio. Ultima sera, domani, un battello ci riporterà nella devastata Long Island per riportarci a terra. Ultima sera, risate e spensieratezza. Luna stelle e alba. All’indomani partenza per l’isola grande, poi direzione Besut, dal pontile di imbarco…

Giunti in questa cittadina che da lontano ha un aspetto molto esotico, cerchiamo un taxi che ci porti a Rantau Panjang, da cui poi valicare il confine. Taxi. Dall’affollato piazzale cerchiamo il tassista dall’aspetto più mite. Colui che insieme ad una coppia di bei olandesi ci porterà per un po’ di chilometri al confine. Saliamo. Carichi dei nostri bagagli pesantissimi su una vettura di improbabile marca, che sputa un odore di raffineria petrolchimica. Dopo esser saliti, abbiamo notato la difficoltà con cui la mite creatura cercava di evitare le salite, oppure, quando questo era impossibile per l’assenza di alternative, schiacciava a più non posso. E schiaccia una, e schiaccia due, e tre, e quattro, quel che si può dire della geografia malese è che non è esattamente piatta, anzi… per cui, all’ennesima salita presa a velocità stratosferica, il velocipede si è spento.

L’autista non sapeva come esprimere il suo imbarazzo. Forse la vettura sarebbe ripartita o forse avrebbe esalato l’ultimo respiro. Una tragedia, su questa route desolata di asfalto, nel clima umido tropicale che insieme a insetti punzecchianti ci ha martoriato per oltre un’ora, tirandoci a coppello, prima di giungere nei pressi del guardrail su cui ci siamo appoggiati (dopo gli innumerevoli tentativi di spinta, uno di questi con la Bea al volante). Avevo la lingua a terra, a differenza del ragazzone olandese che aveva gambe e le braccia il doppio delle mie. Insomma. Estraendo alla fine un cellulare ha chiamato qualcuno, e quel qualcuno a sua volta avrà contattato qualcun’altra che alla fine, dopo un’altra ora ci ha caricato e ci ha portati in città. Morti, una giornata gettata sull’asfalto. Cerchiamo un dignitoso alberghetto, qualcosa che ristori le membra e poi subito usciamo. Piacevole giretto tra le viuzze, dove nell’ordine acquisto un tappeto cinese circolare cucito a squame, poi un paio di corna in madreperla montate su ciondolo d’argento, in una via dove c’era l’impossibile, in termini di chincaglierie. Anche un paio di maschere di Budda e la Bea delle ciotole fatte a forma di foglia.

Passeggiamo ed entriamo in uno spettacolare mercato coperto, dove si trovavano in vendita una moltitudine di dolci, fiori e decori, tutti coloratissimi e che rilasciavano un inebriante profumo. Questo fantastico formicaio umano, lo abbiamo osservato dall’alto, ovvero accedendo ad una rampa di scale che come in un’arena, conduceva ai piani alti. Il bianco delle pareti, su cui riflettevano le sagome avvolte in abiti muslim, donne quasi totalmente coperte, che maneggiavano con abile maestria, foglie di loto per ricavarne involtini tipici che si chiamano Lo mai guai, contenenti riso, pollo o pesce. Altre si dedicavano alle decorazioni floreali, altre ancore, con tocco delicato, infilavano bandierine malesi su piccoli dolci simili ai tartufi europei. Bello passeggiare spensieratamente. Bello… Ultimo giorno di Malesya, perché domani, da qui varcheremo il confine per Sungai Kolok.

Salamat Jalan Malesya… passaggio sul cencioso fiume color ocra. Espletamento delle procedure doganali, non senza un poco d’ansia. Thailandia. Amata e placida. Coi suoi vizi e peccati, (non da poco) ma certamente meno bacchettona. Voltando le spalle al confine, un ultimo sguardo all’arco blu che riporta tal scritta: SILAMAT DATANG KE MALASYA, abbracciata dalle speculari mezzelune dorate con la stella raggiante.

Sungai Kolok si mostra nel suo più povero e triste aspetto, degradanti lamieropoli si adagiano sulla riva scoscesa di un doso d”acqua inquinato e ricoperto di immondizia, legno, metallo e plastica qui sostituiscono mattoni e cemento. Tutto è incorniciato dal verde e le persone, da lontano, sembrano insetti che si arrampicano sui fusti rigogliosi di un gigantesco albero. La stazione non è molto distante dal valico, ma ormai trasportiamo una moltitudine tale di oggetti (tra cui un letto) che rende il tutto praticamente ineseguibile senza un mezzo di locomozione.

Treno biglietti, incastro bagagli e partenza. Dal finestrino bisunto intravedo una donna anziana che avvolta in un sarong guarda verso un treno che forse tarda ad arrivare e che sembra dipingerle sul viso la tipica espressione di rassegnata pace che noi occidentali abbiamo dimenticato da tempo immemore. Partenza. Il vagone sembra quasi vuoto, è pomeriggio, tardi, tra un paio d’ore la luce non filtrerà più attraverso gli alberi, lasciando che il crepuscolo accompagni i viaggiatori e i futuri compagni di viaggio che ad ogni stazione andranno ad arricchire il crogiolo multietnico compostosi casualmente. Thai, tedeschi, malesiani e francesi, noi italiani e qualche individuo di dubbia provenienza. Siedo di fronte a Bea, che lamenta fastidiosi assalti da parte dei famosi insetti catalogati come ‘mosquito’ che le hanno reso la vacanza un inferno. Via. Si ride e si scherza, anche sulla ‘piazza’ del signore tedesco dall’aria da professore di lettere che lucida sovrasta i sedili come una montagna sacra.

Dopo qualche ora, ci si addormenta. Il lento trascorrere delle ore è cullato solo dal ripetitivo ciondolio dei vagoni anni ’70. Prima vista al bagno (che sarà anche l’ultima) reso già inservibile da olezzi e dimenticanze barbare dei passeggeri.

I ventilatori ronzano sui soffitti alleggerendo l’umidità plumbea che si abbatte sul vagone come le piaghe d’Egitto. Ad un tratto, mentre dormivo ‘quasi’ beatamente, mi sveglio di soprassalto, sento in lontananza il signore tedesco, che fino a poco fa sedeva dietro di me, dire con aria preoccupata ‘there’s a bomb, there’s a bomb…’ subito apro gli occhi e mi lascio suggestionare, tanto da ranicchiarmi nella medesima posizione in cui si trova la Bea, dragata sui sedili.

Non la sveglio, intanto se ci fosse stato davvero un ordigno, forse sarebbe stato meglio non accorgersene. Dopo qualche infinito istante, non succede nulla e per qualche strano motivo il tedesco gironzolava avanti e indietro con aria allucinata. Pochi minuti dopo era chiaro che era folle, lo aveva dipinto in viso. Sveglio la Bea, che mi maledice, ma le racconto del siparietto. Restiamo basiti ad osservarlo, finché la sua folle prepotenza non viene indirizzata verso una ragazza, molto carina, avvolta in un velo, che inizia ad insultare cercandole di strapparle il drappo. Allo spettacolo andava messo un freno, vado in direzione testa del treno per cercare un controllore. Lo trovo, ritorno e lui dopo 15 minuti giunge sul posto, dove nel frattempo la ragazza era stata fatta accomodare vicino a noi, ma nulla, il pazzo continuava a molestarla. Insomma, l’energumeno di quasi due metri non accennava a darle tregua. Giunge il controllore, lo redarguisce, lui fa le sue rimostranze adducendo alla poca serietà della ragazza che con sé ha una bomba…. Il controllore si allontana ammonendolo. 10 minuti di tregua e alé! Si ricomincia. Tutto torna esattamente come prima. Rivado dal controllore a cui chiedo di chiamare la polizia. Ritorno, lui mi segue ed alla fermata successiva, senza colpo ferire, due soldati salgono lo prelevano e lo portano giù. Non sembra vero. Pace per le restanti ore, sia per noi, per il vagone intero e per la povera ragazza, presunta terrorista.

Siamo di nuovo a Bangkok, città che rifrange energie come un caleidoscopio, grattacieli solleticati da baraccopoli, formicai galleggianti che ondeggiano sulle acque del Chao Praya, traghetti che sfrecciano da una riva all’altra trasbordando passeggeri vestiti di giallo, monaci con borse griffate che ignorano il vorace mondo intorno.

Mentre quell’esercito di giovani thailandesi indossano occhiali alla moda, jeans, e le immancabili infradito dalla suola pesante, che rende inconfondibile quello strano sciabattio contro l’asfalto umido, (lo definirei la ‘musica di banhgkok’) e la salvietta appoggiata sulla spalla, per detergere la fronte.

Bangkok. C’è tutto per tutti, nei qui mercati poliedrici, invasi di cibarie, orrori da gustare, indumenti ed artigianato, le cui maschere terrificanti rapiscono per la loro multicromaticità. La sera prima della partenza, la Bea ha un crollo. Scoppia in lacrime, il controllo ponfi non da esito positivo. Ne è coperta, sembra un cotechino in ebollizioni, la stessa gamma cromatica dell’insaccato poco prima di essere tolto dalla pentola e servito su un letto di lenticchie…

Partenza, direzione per il neo inaugurato aeroporto di Suvarnabhumi, immenso, lo scalo più grande del mondo. Da perdercisi, proprio come il paese di cui esso stesso è polmone e vita. Un paese ricco di storia, che vive di turismo e gentilezza.

Bangkok, Thailandia, un ricordo per tutta la vita, che insieme alla Bea porterò nel cuore.

 

Moyseion

Graphic Designer/Publisher

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