Inizio dalla fine di una giornata mitteleuropea. Dopo essere usciti di casa alle ore 23 diretti alla stazione di Lodi, su un freschissimo passante ferroviario diretti a Milano, a casa di Bea, con piccolo riposino sul pavimento, siamo arrivati qui. L’aeroporto istambuliota ci ha accolti con amorevolezza alle ore 12.00, dopo un viaggio tranquillo ma certamente votato all’analisi antropologica di una coppia di ‘ivoriani’ la cui parte femminile era l’anello mancante tra l’homo sapiens e il cro-mangon, un individuo le cui ginocchia erano piegate sotto il peso di una massa corporea elefantesca, capelli surunti e aria da macaco post esperimento neurologico. Una vera coatta (griffata) disabituata alla civiltà. Una metro con cambio a Zeitunburnu ci ha portati dall’aeroporto Ataturk sino a Sulthanamet, in mezz’ora circa, passando per le mura divelte alla fermata Topkapi. Una brezza incessante che soffia da sud-est ci segue ed allieta per tutto il di. Giretto per Istanbul, Aya Sophia, la cisterna Yerabatan Saray, passeggiata lungo il Bosforo e nella Moschea Blu. Un cielo dipinto splendeva sopra l’ippodromo… Un tramonto ambrato ci accompagna verso l’aeroporto, Teo e Vale si regalano continuamente pause sigaretta, in vista della forzata astinenza che ci condurrà a Mumbay, mentre io e la Bea, ci copiamo reciprocamente i nostri disegni infantili, come due scolaretti sui banchi di scuola. Istanbul è sempre in grado di regalarti emozioni uniche. I love Costantinopole, recitava una canzone doodee degli anni ’50…
Mumbay. L’arrivo in questa città, il cui nome da un decennio ha rispolverato l’antico culto alla dea Mumbay, sostituendolo al vecchio e desueto lusitano Bon(m)bai, è stato un parto terminato solo con l’arrivo di un taxi necessariamente da prenotare (dopo solamente un’attesa alla Matusalemme di oltre un’ora). Ore 7.30 ma siamo giunti in una landa desolata circondata da dock coloniali. Flotte di corvi planano ovunque. Siamo nell’Estate Block, Il porto, dove un tempo veleggiavano i galeoni e pescherecci, ora ormeggiano e strombazzano navi da crociera e pigre petroliera battenti le più svariate bandiere. Un cielo cupo, pietrificato e carico di nubi plumbee, ci regalano ogni venti minuti, una tenue pioggerella. Corvi. corvi gracchianti ovunque. Arriviamo nei pressi dell’albergo, dove un cane randagio cerca di assalire il braccio del Lemure fuori da finestrino del taxi, scena simile all’alano Ivan nella saga Fantozzi… Alloggiamo all’ultimo piano del Grand Hotel, un vecchio edificio coloniale appena appena risistemato, giusto per renderlo presentabile. Lunghi corridoi si affacciano su un cortile coperto da rete metallica. Attendiamo mezz’ora circa, due caffè cadauno prima di avere la camera tutti insieme. Camera, ampia, grande, bagno delizioso e nuovo, con lavandini in cristallo e box doccia intonso. Mumbay ha la nomea di essere molto dispendiosa per quanto riguarda gli alloggi, questo per il semplice motivo che è una città presa di mira dal commercio e dall’industria cinematografica. Verso le 15.00 usciamo per fare una passeggiata in direzione Hight Court, pranzo da Badmya, dove sotto a pale indemoniate e aria condizionata da peschereccio giapponese, assaggio il dolce che mi farà innamorare dell’India, il kheer, una purea di riso e latte, con pistacchi e cardamomo, servito freddo in una ciotola di terracotta! Un piacevole giretto verso il museo Shivalj, uno splendido edificio che si raccogli intorno ad un bel giardino, ricco di manufatti di tutte le epoche. Caffè e qualche minuti di ristoro in questo polmone verde e poi qualche chilometro a piedi verso il Gateway of India, semplice solitaria costruzione proiettata verso l’oceano, edificata in stile moresco nel 1911 per l’arrivo di re Giorgio V e la consorte Mary, in visita nella colonia, ricordato inoltre perché ultimo imbarcadero verso l’Inghilterra delle truppe coloniali nel ’47. The cry of blood for blood in barbarous. M.M. Gahndi
Lemure dixit:
Adesso che siamo in città vediamo uno dei famosi film indiani con gli attori che più sono grassi più sono belli e dove i cattivi sono proprio cattivi.
Magia delle magie, emozione e puro divertimento è stata la scelta di andare al cinema, soprattutto considerando che la proiezione era in marathi purissimo e non era sottotitolato in inglese. L’inizio è stato osannato dall’inno nazionale con il pubblico che in piedi, lo cantava solennemente mano sul cuore. Chennai Express. La cena all’Indigo, splendido locale terrazzato alle porte di Colaba, ottimi piatti, decisamente un può’ troppo cari rispetto allo standard indigeno. Ci serve un ragazzo cino-indiano molto simile a Chiaoo di ‘Una notte da Leoni’. Teo, che nota la somiglianza, non fa altro che riproporre i pezzi salienti del film, Panzooone… Chiaooo… Rientrando passiamo davanti al famosissimo Leopold, ritrovo di turisti di ogni dove, noto per essere stato il locale frequentato da Robert in Shantaram. Rivivo le pagine di quel libro e son felice di averlo letto, ringrazio Vale di avermelo regalato.
Lemure dixit:
Non è il primo viaggio che faccio in Asia, ma l’India e Bombay sono un capitolo a parte. Più di ogni altra cosa mi ha colpito la gente… sarà banale ma è la sensazione che mi pervade di continuo. Probabilmente il diario che segue contiene molti luoghi comuni, ma la meraviglia di Bombay che anche i cani sono buddisti!!!
9 agosto
Purtroppo per noi, anche in India le regole muslim spesso prevalgono sulla maggioranza indù e causano non pochi disagi, del tipo: mercati chiusi, sovraffollamento stradale e vertigini uditive da abuso di clacson. Entrando in Victoria Station, neogotica stazione ferroviaria simile alla Parlament House londinese, patrimonio Unesco, cercando di arrivare ad un Tourist Office, su e giù per le scale grondanti polvere e sudore, troviamo un desk tutto per noi. Acquistiamo biglietto treno per Nasik, il giorno seguente, ore 8.20, ma senza l’assegnazione posti/sedile, perché quella, verrà affissa su un tabellone entro sera, con nostri cognomi e nomi scritti in calce. Incredibile! Fermo, Anelli, Internicola e Bergomi compariranno su un’interminabile elevo da riempire uno stadio (tant’è la capienza dei treni indiani). Balle, tornando un paio di volte in stazione, non lo troveremo affisso se non il giorno seguente… Si decide una piccola uscita in direzione Kotachiwadi, un quartiere cristiano molto pittoresco, colorato e con altarini e madonne un po’ ovunque. Si pranza in un locale anonimo su una via trafficatissima, al primo piano, incastrati tra il muro ed una finestrella lercia. Doosa e palak paneer. Squisiti. Qualche dubbio Teo lo solleva sui bicchieri in acciaio e sull’acqua contenuta nella brocca anch’essa in metallo. Troppo tardi, io ho già bevuto, Vale piuttosto casca disidratato, la Bea, al solito manifesta il desiderio di trovare un bagno (inesistente) perché rischia l’esplosione…
Questo pomeriggio andremo a visitare la casa bombeiana di Gandhi, il Mani Bavan, in una via invasa da alberi altissimi, lussureggianti ed ombrosi, dove risiedette sino al 1934. Entrando si viene subito rapiti dalla ricca biblioteca ad uso cittadino, un pavimento in ceramica a motivi liberty, una camera al terzo piano con alcuni oggetti utilizzati dal beato uomo, degli zoccoli con un pomello da posizionare tra l’alluce e il indice del piede chiamati Laxmi charan, un dothi ripiegato ed una stuoia. La somma algebrica dell’essenziale. Raccolgo qualche foglia da un albero di banian che ondeggia sul balcone, una pianta centenaria che avrà certamente ascoltato le preghiere del Mathma. Dopo aver trascorso un paio d’ore nel suo interno, con un taxi andiamo al Kamps Market, un assurdo quartiere tanto quanto la Girgaum Chiopathi, la spiaggia cittadina, con acque nere, così inquinata (dicono essere la spiaggia più inquinata al mondo) da vietarne la balneazione, dove veniamo assaliti da un nugolo di bimbetti così appiccicosi e pesanti da non riuscire ad allontanarli nemmeno con la canfora; dei veri tafani! Torniamo ripassando nuovamente (ed inutilmente) per Victory Station, per la riconferma e assegnazione dei posti in seconda classe. Teo e Vale hanno continuato il loro giretto in direzione dell’Hotel, mentre io e Bea, eccitati, abbiamo continuato a vagare per le vie limitrofe gustandoci un belphuri (snack tipico locale) composto da riso soffiato, cipolle, spezie e arachidi (a tratti nauseante). Un banchetto isolato tra un pittoresco barbiere in un chiosco apri e chiudi, vende uova lessate, tagliate a metà su cui un soffio di chat dona un sapore unico. Via verso l’albergo. Ceniamo in un ristorante non lontano dall’albergo, ad una temperatura da ibernare un eschimese. La qualità dei nostri pensieri determina il nostro grado di felicità (recita un mantra su una lavagnetta a Kotachiwadi).
Lemure dixit:
Ci troviamo a notte fonda, stremati prima di partire a casa di Beatrice. sono incredulo, ci siamo davvero trovati per andare in India tutti assieme!! La Bea poi, la nostra compagna di viaggio totemica, Matteo, la nostra farmacia ambulante e Paolo, emozionato anche lui. è la prima volta che lo vedo fare una foto a noi esseri umani invece che a un monumento. forse perché per lui siamo dei monumenti.
Sono sopravvissuto a stento in India! sì perché io in India non ci volevo andare… per me l’India rappresentava le grandi M, la miseria, il misticismo, la m*#~@.
Negli anni ’60 quando c’erano i Beatles che ci andavano io non c’ero ancora, negli anni 70 invece ci andavano i fricchettoni ma io avevo 1 anno. negli anni ’80 invece l’India è passata di moda e già dagli anni ’90 a me è venuta voglia di misticismo, guarda un po’!
Paolo aveva tutto in testa, è stata una specie di trappola familiare, abbiamo veramente rischiato di divorziare per colpa dell’India.
Mi son trovato in questo posto dove tutto è faticoso e anche pericoloso per certi versi.
Io il massimo del terzo mondo che avevo visto era la stazione di Napoli centro. L’impatto con l’India è un impacco di carta vetrata gelata e chiodi bollenti sulle parti sensibili del corpo, psiche compresa. Io l’India sapevo che c’era ma non credevo che esistesse invece è proprio come nei documentari. Vorrei spegnere la tv ma non si può, ci sono dentro. È un incubo che però in un certo senso è bello come un sogno. Stordito dal casino sono però affascinato dagli esseri umani, donne magari povere ma elegantissime nei loro sari, uomini vestiti come straccioni con un asciugamano sulle spalle e un altro sulle palle che sembrano avere un sacco di cose da fare.
La strada è un sottile nastro di pessimo asfalto sul quale passa un solo veicolo per volta. In caso di incrocio di due o più veicoli il più grosso mangia il più piccolo come nella dama. Se poi i due veicoli sono equivalenti passa quello che suona più forte.
10 agosto
Giunti a Nasik dopo 3.40 di treno, circa a mezzodì nella stazione a sud della città, percorriamo con due tuc tuc gli 8 chilometri che ci separano dalla città come se stessimo correndo su delle bighe al circo Massimo. Sparati a 70 km orari, dribblando mucche, passanti, volatili, tir, macchine, su vialetti dissestati dai monsoni che ormai battono l’India da mesi, incrociando ogni specie umana e tecnologica. La cernita degli alberghi è stata molto complicata, Nasik è una città religiosa, sede di complessi sacri e mete di pellegrinaggi, approdiamo così in un albergo che propone dalla prima alla quarta classe… Inutile dire su cosa sia ricaduta la scelta della camera, senza far infuriare Teo, che nei letti dei minuscoli indù fa davvero fatica a starci. Panchavati Yatri, 4a classe. Delle bettole room con ballatoio su cui bersi una birra fumando bidi. Due camere separate perché Teo, appunto necessita da solo di un letto matrimoniale per sdraiarsi di traverso. La vera sorpresa, unica nel suo genere la si osserva aprendo il bagno in mosaico di ceramica. Una tazza con sormontato una turca fanno della piccola stanza un luogo da cartoon giapponese, simile alla navicella che si inchioda nella capoccia di Geeg Robot. La città da subito risulta essere simpatica, dopo un frugale pasto nella mensa per pellegrini del P.Y., percorriamo le caotiche vie in direzione del fiume Godavari, attraverso stradine scoscese e fangose, ricche di negozi curiosi e variopinti, proiettandoci verso i ghat, i famosi gradoni assiepati di fedeli che praticano abluzioni nelle putride acque che straboccano dagli argini. Passeggiare a piedi scalzi nei templi è stato faticoso ma al tempo stesso mistico. Un signore ci ha guidati selezionando una ventina di templi, i più importanti. Gentilissimo e paziente ci ha accompagnati, insieme alla pioggerella costante lungo le vie di questa cittadina così bella. Al primo tempio osserviamo un santone adagiato sotto al suo ombrello arancio, incurante del mondo, un grande occhio che si posa su di noi. Dono della vita e della saggezza mistica. Cittadina mica tanto, visto che ha oltre un milione di abitanti… Il termine Nasik deriva dal sanscrito ‘naso’ ed è legato al racconto che vede Laksmana tagliare il naso del demone Surpanakha, la sorella minore di Ravana. Ai piedi dell’ultimo tempio vediamo ciò che mai ci si aspetterebbe di vedere, ovvero delle donne con la lebbra. Le loro braccia menomate riescono, con leggere contrazioni della pelle a raccogliere e intascare le donazioni di tutti noi. Povere donne. Povere. I loro placidi volti sono l’espressione della rassegnazione e del totale abbandono al destino. Noncuranti della pioggia, si assiepano a grappoli ai piedi dei gradini in direzione del Godavari. In una piazzetta lungo i ghat un mercato meraviglioso vende ogni sorta di chincaglieria religiosa e non. Noi risultiamo essere tanto interessanti ai locali quanto le loro mercanzie ai nostri occhi. Io acquisto anelli e bracciali in quantità industriale per amici, un anello per Francesco, che riporta trascrizioni in sanscrito, bracciali storti, serpenteschi e collane intrecciate, mala in semi di loto e di rudra. Riesco ad acquistarne così tante che ad un certo punto quasi non cammino più sotto il loro peso (sommato agli indumenti bagnati). Si cena nel delizioso ristorante afghano Kyber, ai pedi del P.Y., giardino incantato molestato solo dai clacson. Il tutto annaffiato con un ottimo ‘Sula’ vino coltivato in loco, che conclude questa giornata mistica.
Lemure dixit:
Finalmente varchiamo le porte della città di Nasik, città santa per eccellenza con i suoi templi e i suoi gat. Ebbene sì, ci immergiamo subito nella spiritualità a tratti mistica a tratti mercenaria dell’india rurale, quella difficile da raggiungere e davvero poco battuta dai turisti più scaltri di noi.
Mi chiedo cosa ci faccio io qua, comunque, ad una prima occhiata, è evidente che Nasik è una formichina di paesino tipico del sud dell’India che ad un certo punto ha partorito un elefante. Appena arrivati vediamo dappertutto negozi e bancarelle lungo il fiume color cioccolato. A Nasik si respira aria di misticismo puro, le religioni devono essere davvero cospicue visto che i templi sono decorati con rappresentazioni religiose, da Ganesh a Shiva, Buddha, Cristo e Maometto. Ci sono scuole dall’asilo all’università, in periferia ci è addirittura un aeroporto in costruzione.
Non ci resta che scorrazzare per il centro storico della città dove c’è un gran casino, ci rifugiamo nel bar del centro, che di primo acchito ci sembra sporco e poco raccomandabile ma che poi scopriremo essere il migliore della città, un vero grand hotel tanto è vero che alla porta c’è una guardia privata, un uomo di serie B carico di feticci para militari incaricato di non fare entrare altri uomini di serie C e D cioè i mendicanti perché non arrechino disturbo agli uomini di serie A cioè a noi occidentali. Dentro, la flora è rappresentata dall’arredamento da bar parrocchiale e la fauna da un gruppo di occidentali dall’aspetto mistico. ordiniamo con circospezione acqua minerale e un piatto che ci raccomandiamo sia cotto. sorpresa, è un sedicente riso biriani, poco speziato e con strani granelli neri qua e la. Si vede che siamo neofiti, qui quelli più navigati ordinano persino la spremuta allungata con l’acqua di rubinetto. Mi sento un marziano, con le movenze di un marziano e l’aspetto di un marziano. Quindi quando vediamo le collanine che tutti portano al collo e i bracciali di rame ci adattiamo, e ci infiliamo la nuova parure che comprende anche anelli per i piedi e cavigliere. all’inizio mi vergogno molto, ma il dilemma è essere diverso e quindi notato o essere uguale e quindi trasparente? Opto per la trasparenza che oltretutto non fa trasparire il mio scetticismo laico-materialista. Io non ho voglia di fare spese, sono qui per motivi naturalistici, e mi sono ripromesso di non lasciarmi prendere dal fuoco degli acquisti semplicemente perché qui costa tutto poco. Ci sono stoffe bellissime e quando vai nei negozi ti senti un signore. Non sono un turista arraffa arraffa.
Andiamo al guest house, un albergo a cui non è possibile assegnare nessuna stella, ma che brilla ugualmente per funzionalità e attrezzature igieniche, c’è tutto a modo suo, un wc per watussi con una turca in cima al bordo, un catino per la doccia e un rubinetto a cui non è collegata l’acqua calda. Soprattutto c’è la vista sulla piazza che ospita il parcheggio, un centro ricreativo per gli addetti dell’albergo e per i pochi turisti intenti a capire dove posteggiare la macchina senza essere ripresi dai fischietti assordanti dei posteggiatori intenti a svolgere a tutti i costi la loro mansione.
Sotto casa c’è anche la lavanderia dove la moglie lava al fiume e il marito stira fino a notte fonda. stira con un ferro a carbone che fa un gran rumore. Il rumore non ci abbandona mai, ai rumori del giorno subentrano quelli della notte. cani che abbaiano, buoi che passano, indiani che tossiscono e clacson dei tuc tuc accidenti, quelli non smettono mai.
Non dormo, quindi penso, penso a questo posto. Sono qui perché spero ma non so in che cosa, in più mi sono trascinato dietro Paolo. Per fortuna abbiamo anche Matteo e quindi la scusa di dover accontentarlo. Spesso senza dirlo ho sperato che Teo prendesse le redini della situazione ormai degenerata e ci portasse in un grand hotel a 5 stelle. Nel frattempo ho instaurato un rapporto con i mendicanti, nel senso che ci siamo presi le misure. All’inizio eravamo lontani, io gelato dal ribrezzo e dal senso di colpa, loro surriscaldati dalla foga di farsi dare qualcosa. Adesso ormai ci conosciamo di vista e le nostre temperature sono reciprocamente tiepide. Io mi commuovo meno e li accetto di più, loro mi assaltano meno ma mi guardano di più. Nasik è il logaritmo che permette di sommare e di sottrarre le nostre reciproche differenze e conducendole semplicemente all’umano. I bambini sorridono sempre, allo straniero allungano spesso la mano sperando in qualche rupia. Ho imparato a fare mai no con la testa, per loro, lo stesso gesto, vuol dire sì, per questo insistono.
Un’altra cosa, le spazzature si buttano per strada. Poi ognuno spazza davanti casa sua e le spazzature finiscono in mezzo, poi tutti ci passano sopra e le spazzature si sparpagliano di nuovo. Per assurdo, in un posto pieno di spazzature non sai mai dove gettarle. Più tardi, sul ballatoio del residence incontriamo una coppia di turisti.
Insomma, c’è la gente, gente che non riesce a convincermi del tutto ma smuove persino in me tutta una serie di dubbi, non so se a causa di questo travaglio psicosomatico o più banalmente a causa di qualche schifezza che ho mangiato, fatto sta che sto due giorni a letto con la diarrea. Qui dicono che se uno è refrattario all’India si ammala, Paolo e Bea invece sono dei fenomeni, possono bere il lassi, uno yogurt che come dice il nome, rischia di essere molto lassativo.
Vabe, ho capito, mi tocca fare una doccia e rimettermi in sesto perché alla Bea le è ripresa la smania mistica, è qualche giorno che parla di Ellora e Ajanta, un sito archeologico di templi buddisti e induisti arroccati sul costone scosceso di una montagna, un sito che dovrebbe stare a qualche centinaia di chilometri a sud est di Nasik. peccato, adesso che cominciavo quasi ad ambientarmi, adesso che le mucche cominciavano quasi a non farmi paura.
Andiamo in pullman che qui costa qualcosa come 20 centesimi di euro mentre il taxi o il treno potrebbero costarci la salute.
Visto che mancano le zanzariere e visto che non mancano le zanzare malariche, dormo in una salamoia di Autan nelle lenzuola italiche ormai contaminate di tutto ciò che ci circonda. Prima o poi bisogna fermarsi a mangiare, la cucina indiana è sanissima, tutta vegetariana, il piatto di plastica è di moda, non è una decorazione, ci si poggia veramente il cibo… si però il cibo è composto da ciotoline di salsine indefinibili ma piccanti come una boccata d’inferno, da piadine semplici e da riso manomesso da troppe, troppe mani. Però vuoi mettere la soddisfazione di essere al centro dell’attenzione generale? E non bisognerebbe fare poi così gli schifiltosi, pensiamo a cosa proverebbe un indiano di fronte a un piatto di tortellini!
L’India del sud ha un tasso di religiosità altissimo, una cosa bella sono i templi di tutti i tipi che si incontrano per strada. Nella periferia, tra le baracche, ci sono i templi mignon fatti con due pietre. Basta che un sasso abbia delle fattezze strane, gli si fanno due occhi arancioni, lo si veste ed eccolo diventato il dio Ganesha, basta un albero con appiccicato un’immagine sacra di qualsiasi tipo per determinare un luogo di culto che non sarà un granché ma è assolutamente autentico ed esclusivo.
11 agosto
Ahurangabad. Questa caotica città, in maggioranza islamica (di retaggio culturale moghul) ci ha finalmente accolti con un po’ di sole. Una città parecchio brutta che non conserva assolutamente il fascino di capitale rivestito qualche secolo fa, quando Ahurangazeb la scelse come città simbolo del suo impero così raffinato. Di quell’epoca si può notare ancora la cerchia muraria e qualche edificio, ma poco altro. Solo dalle montagne circostanti si può effettivamente capire il motivo di una tale scelta. Infatti la città, sebbene brutta ed insignificante, dall’alto risulta una perla bianca circondata da laghetti e colline verdeggianti. Riesco ad immaginarla qualche secolo fa, quando l’arte e l’architettura moghul era in grado di colpire chiunque se ne imbattesse. La città conta poco meno di 800.000 abitanti, e ci propone come soluzione (forse l’unica) un albergo statale da 5 euro cadauno, il MTDC Tourist Hotel, con estenuante attesa del cambiavalute ‘statale’, in un ufficio così polveroso da far schizzare l’allergia di Bea come se fosse stata a Cernobyl. Assegnataci la camera, un paio di stanzoni in una dependance che si affaccia sulla via principale della città, un ballatoio comune con un reticolo in cemento affiancato da una sorta di canneto, ci separa dal cordolo sterrato dove tutta la città di fauna maschile, sosta per le proprie deiezioni. Vediamo così tanti organi genitali che nemmeno un andrologo in tutta la sua carriera. Doccia e bucato da stendere, momento di ristoro, pranzo di fronte al complesso statale, nel cortiletto desolato, e partenza verso le grotte buddiste che costeggiano le montagne intorno ad Ahurangabad. Laximi, il taxista ci carica in 4 sul suo tuc tuc! In quattro sembra di essere carne Simmenthal, compressi, considerando che oltre all’autista al massimo dietro possono restare due persone (è pur sempre un apecar) e noi aggiungiamo invece Teo, un molosso di due metri per 120 kg. Mentre sfrecciamo uscendo dalla città, realizzo che sono davvero felice e fortunato, mi trovo in India, con Vale, Teo e la Bea, tre tra le persone che più amo. Sono davvero fortunato. Mentre corriamo verso l’esterno, Vale chiede all’autista come ci si diverte la sera. Lui tace. No comment (ma Vale ancora non capisce la frustrazione muslim, avversi alla parte ludica e divertente della vita, se sommiamo poi l’area geografica in cui ci troviamo…). Laximi ci dice che per una strana normativa vigente in città, per strada ci sono molti ubriaconi, confermato dal fatto che lungo le vie si trovano moltissimi wine shop. Piove un pochino e ciò rinfresca la pesante e palpabile aria rendendo la gita alle caverne una vera delizia. Tanti gradini, natura incantevole, una vista sulla città mozzafiato e sul suo monumento principale, il Bibi ta Makbara (mini Taj Mahal) e tantissimi pappagallini. Le caverne si perdono a vista d’occhio, sono molte, curatissime e maestose. Incredibile poterle visitare, così antiche e soprattutto arroccate sul quel costone di montagna. Dopo le caverne, non ci resta che un paio d’ore per tuffarci giù, in direzione della città, per visitare il Bibi ta Makbara, la rivisitazione più piccola e (povera) del Taj Mahal, mausoleo edipico voluto dal principe Azam, figlio di Ahurangazeb per onorare la madre Rabia al Durrani. La costruzione, inizialmente solenne e maestosa, iniziata nel 1651, strada facendo fu snellita e rivisitata dai tesorieri addetti alle elargizioni paterne che decisero di risparmiare sui marmi preziosi e sull’utilizzo di artigiani esperti, per non prosciugare le casse statali (facendo inequivocabilmente di questo mausoleo la brutta copia del cenotafio di Agra). Mi correggo, il risultato è comunque piacevole e armonico, verso sera, in occasione del Eid el-Fitr, i giardini ed i terrazzi si riempiono di chiassosi muslim che ci tiran matti con foto scattate ad un cm dal naso e strattonamento annesso. Che pazienza. Bea ne ranca un paio e gli stacca la pelle dalla schiena. Grande Bea, non la ricordo così agguerrita dalla fustigazione delle tre bimbe a Giza, nel 2000… Bello osservare il tramonto tropicale, dove il cielo si tinge di rosa, ed uno spicchio di luna inizia a brillare incorniciato tra i minareti. Che sensazione meravigliosa.
Rientriamo nel MTDC Governement Tourist Lodge (la topaia staliniana) e ci ripuliamo e scegliamo un posticino per la cena, il ‘Godavi’s’, carino, con due sale, una per famiglie indiane, più commerciale ed una sala, a 11° per i turisti. Imploriamo di alzare la temperatura, ma sembra che non ci sentano, dopo 5 minuti ripassa un cameriere ed impugnando il telecomando, ci porta di nuovo nel freezer… come faranno non so… soprattutto se si considera che la sera, con le piogge, la temperatura non è mai così bassa, anzi. Giunge la notte, e stanchi come siamo, dopo le oltre 4 ore di bus da Nasik ad Ahurangabad, ci sorseggiamo qualche berretta Kingfisher e qualche pistacchio trascinando i divanetti e le poltrone dalle stanze sul ballatoio della dependance, controllati dalla webcam del custode che sta a 500 metri nella sua guardiola. Una piccola nube di incensi allontana gli effluvi che provengono dalla latrina sottostante.
12 agosto
Ellora dista circa 100 km da Ahurangabad, si trova su un costone scosceso di una splendida vallata. I templi si susseguono dal numero 1 al 26, tutti molto simili tra loro, interrotte solo da una frana che ha ricreato una splendida cascata. Un posto molto esotico e sensuale, adorato sia dai buddisti, che agli indù e ai giainisti. Di notevole fascino e probabilmente il più importante è il n°16, il Kailasa Temple, la struttura monolitica più grande del mondo. Tutti i templi sono interamente scavati nella roccia, con una tecnica scoperta grazie ad un tempio lasciato incompiuto e che ha permesso di comprendere che il primissimo intervento per realizzare un tempio consisteva nello scavare le gallerie, da cui poi venivano ricavate le colonne e i decori alle pareti, più la santa santorum per la divinità. Noto con una certa ripetizione che le mani dei vari Budda sono posizionate così: il pollice e il medio della mano destra si toccano e a sua volta sono a contatto co il minolo della mano sinistra, rivolgendo i palmi all’esterno. Ritorniamo davvero stanchi ma appagati verso la città. Sostiamo lungo un lago incantevole dove il Lemure adocchia una donna che arrostisce le pannocchie (lui ghiotto come un roditore di tutoli e mais) e ne acquista un paio, mentre io, mi calo pericolosamente verso un dirupo per raccogliere da una meravigliosa e succulenta cresta vegetale, un’escrescenza da portare a casa per il giardino indiano (rituale che vale per ogni paese visitato). Rientrando dal complesso templare di Ellora, sostiamo a Dawlatabad, un complesso fortilizio sorto nel 1187 grazie alla lungimiranza strategica di Bilama V (anche se il suo vero nome lo deve a Moamad bin Tugluq nel 1327) sulle pendici delle verdeggianti montagne, una vera cresta in pietra che si apre sulle pendici scoscese e ondeggia flessuosa lungo tutto l’orizzonte, a perdita d’occhio. La salita è faticosa, portali lignei e bronzei si susseguono, costellati di scimmiette vivaci (un po’ spaventose…) che corrono lungo le alte mura. Tutto è così strano e la sensazione di accerchiamento è così forte che ti spinge a raggiungere le vette più alte per respirare un po’ di questo plumbeo cielo. Il verde tutt’intorno è di uno smeraldo pungente, davvero spettacolare. Un minareto altissimo color caramella svetta come un dito indice verso un cielo quasi a volerlo bucare con il suo vivace colore. Io e la Bea ci spingiamo (morti) fino alla cima del forte, Teo e Vale ci attendo qualche terrazzo più in basso. Sfidiamo i gradini pericolanti e gli antri che puzzano di deiezioni, arrivando davvero sfatti. All’uscita Vale come un bimbetto si diverte a fotografare le scimmiette in posizioni divertenti, come animali guidati da un coreografo davvero originale. Di ritorno passeggiamo per un piccolo complesso religioso all’apparenza semi abbandonato ma che invece riserva una sorpresa molto carina; vivacissime donne attendono ai piedi della divinità che qualcosa accada. Meraviglioso, come lo sono i riccioli ed i decori marmorei abbandonati come solitarie vedove spettatrici eterne di un passato rassegnato all’oblio.
Al ritorno, il tassista dribbla di tutto, dalle persone agli animali, carri, tuc tuc, tir, fagiani, suini coprofagi per poi non farcela ed inveiste un piccone…
Tornando in città, Teo rientra in albergo, io Vale e Bea decidiamo di affrontare il monsone (che alle 18 di ogni dì si scatena come il diluvio universale) e recarci in centro per fare acquisti. Appena messo giù il piede dal tuc tuc, costeggiando i tendoni ricolmi d’acqua, prendiamo dei quadretti religiosi, dopodiché in un negozio di stoffe, dei vivaci sahari per la Maroise e per farci le tende di casa. Bea si inchioda come un sausso in punta da caccia nei pressi di un disegnatore di henne che causa umidità (e quindi l’impossibilità che si asciughi in tempi brevi) la sequestra per oltre un’ora e mezzo su un seggiolino insieme alle muslim velatissime in attesa di farsi pittare le mani per un matrimonio. Bea, invece avendo i piedi disegnati, sembra una piccola martinitt in vetrina. Io e Vale ci sganciamo una mezzoretta ed andiamo acquistando ciotole di terracotta, vasetti e un masala dani (spice box) in metallo. Cena al Pancharvati di fronte al MTDC. Lieve pioggerella che ci fa scappare all’interno. Notte ubriachissima città. Notte, cercate di non farvi male.
13 agosto
Ajanta. Le grotte di Ajanta sono uno spettacolo mozzafiato, situate sulla riva di un fiume che a ferro di cavallo attraversa una vallata, scoperte casualmente nel 1817 durante una battuta di caccia. Questo monumentale complesso si è sviluppato a partire dal II secolo a.C. sino al VII d.C. Abbandonato poi al completo oblio. Un’incantevole giungla in cui scimmiette e scoiattoli scorrazzano felici. Una catapulta indietro nel tempo. Dopo due ore di auto ed una salita vertiginosa lungo le gradinate siamo totalmente sfatti. A Vale inizia a battere il cuore come una locomotiva, Teo è madido e la Bea coraggiosa anticipa noi tre smidollati. Ogni 10 metri le famiglie ci chiedono una foto di gruppo sbattendoci in braccio i loro marmocchi piscienti. Teo, alto, biondo e come dire, tondo, è visto dai minuti e pitecantropi indiani come un marziano. Lo tirano a cimento. Giunti nell’ultima caverna, Teo ranca la Bea in braccio e la scaraventa su un toro di marmo. Lei inorridisce, noi la immortaliamo con una dozzina di foto per schernirla per tutti i restanti giorni, la turista medio-woman che incurante dell’arte, la calpesta e non la rispetta. Di ritorno, dopo aver visitato le cascate e fatto qualche foto tutti insieme, appesantiti dal nostro pic nic consumato lentamente su un terrazzino verdeggiante a ridosso della vallata, io e la Bea, sostiamo lungo il fiume e prepariamo su una mega foglia con dei fiorellini e qualche granello di zucchero per fare una ‘puja’ ovvero una donazione sacra al fiume, in pure stile indù; ma la barchetta sembra impantanarsi un paio di volte prima di imboccare la curva che la porterà lontano dai nostri occhi, tanto che la Bea commenta l’accaduto così: ecco, vedi, è la rappresentazione metaforica della mia vita. Immobile… che scema! Due ore di auto e si rientra. Cena al Parshanta. Birre. Tante risate e nanna.
Lemure dixit:
Entriamo nei templi monumentali, maestosi monoliti di granito e rocce scure scavati nella natura incontaminata simile alla giungla amazzonica, arroccati su per interminabili scalini interpretabili al massimo a coppia di due ma con estrema fatica in più per non perdere l’equilibrio. Qui ho proprio una brutta faccia, solo l’atmosfera placidamente contemplativa dei pellegrini indiani raccolti in preghiera riesce a calmarmi. E dire che per loro la lotta alla sopravvivenza è molto più dura che per me eppure sembrano condurre una guerra di resistenza umana molto più dignitosa e molto più efficace della mia. Forse sono semplicemente più magri di noi, fatto sta che sembrano più aerodinamici cioè offrono meno resistenza al vento e alle intemperie della vita. Che belli che sono, fanno delle cose strane e rituali, sembrano contenti. Le loro acconciature tradizionali sono trendy, neanche un punk moderno taglierebbe i capelli così. Ci tengono ad essere particolari, potrebbero essere i bramini più importanti dell’India o semplicemente della gente di un villaggio che in corriera o a piedi è venuta fin qui per recitare questa preghiera. In questo momento vorrei essere dei loro.
Possiamo ammirare l’atmosfera del fiume molto mistica ma senza cloro in cui i fedeli fanno i loro bagni purificatori. L’ingresso ai templi non si paga ma per mettere al sicuro le scarpe bisogna sborsare tre rupie. Certo, per un occidentale come me sarebbero pochi spiccioli se non che non mi sono attrezzato con la moneta e ogni volta mi tocca pagare con cento rupie aspettando invano il resto.
Anch’io sono colpito da tutto questo ma non mi sento coinvolto, rimango sulle mie, è più forte di me. Beatrice e Paolo invece sembrano arrivati alla loro dimensione, sono psicofisicamente a loro agio, scalzi, col turbante, si sono trasformati in una caricatura di Sandocan. Comunque la tappa a Aurangabad mi è servita, so dove tornare quando mi romperò definitivamente le scatole dell’Italia.
14 agosto
Dalla paludosa e sfasciata Ahurangabad partiamo alla volta di Poona, nel cuore del Marashtra. Dopo un viaggio in pullman ta-ga-dà, ad ogni falla nell’asfalto ci scaglia contro il tetto, il Lemure vola e decolla come un’astronauta. Siamo noi 4 più un signore e i nostri rispettivi zainoni incastrati nell’ultima fila di questo bus che al massimo può contenere una cinquantina di anime. La Bea legge il suo libro, il Giardino delle vergini suicide… giunta in un punto particolarmente triste, scoppia ad un tratto a piangere, come una matta ed un anziano, non capendo cosa le stesse accadendo cerca di consolarla (paradossale). Teo, puntando l’indice alla sua tempia, dice all’anziano che la signorina it’s crazy…Vale intanto ridacchia e decolla come in assenza di gravità. Un viaggio assurdo ma divertente. Le nostre schiene sono a coriandoli, chissà se mai riusciremo a rimetterci in posizione quanto più simile al momento prima di sederci su quel pulman. In una piazzola di sosta a metà strada, cerco pigramente di arraffare del cibo da un venditore che bussa al finestrino del bus. Compro due dosa con focaccia, all’apparenza ghiotta ghiotta. Addento ma frittelle a che mi paralizza il palato. Una dose letale di peperoncino e chissà cos’altro ancora si spalma sul mio palato… Muoooooioooo… 4.30 minuti di viaggio per giungere in quella che per l’India è la rivincita urbanistica sullo stile occidentale. Poona, che sembra più Guernica… non ci accoglie benissimo, tutti gli alberghi sono full, e ci aggiriamo con i mastodontici zainoni alla disperata ricerca di un’accomodation. Il Ritz, in una traversa della M. Gandhi Station, una vecchia villa coloniale in legno, parzialmente risistemata, ci offre all’ultimo piano una camera deliziosa, nuova con un letto matrimoniale, in cui dormiamo in tre e un materasso al suolo per Teo (su cui ci si adagia a malapena). Piccola lacuna: la recepiton. Un’accozzaglia di cafoni rincoglioniti ci da il benvenuto, sbruffoni arricchiti che ci trattano come pezzenti (forse a ragion veduta) comandandoci a bacchetta, come se fossimo dei dalit (la Bea mi chiama Dalit, colui che appartiene alla casta più bassa). È ormai sera. Si cena al Premps, un locale carino e molto occidental lounge, dove se vuoi i camerieri ti comprano anche le sigarette, con rincaro. Saziati e stanchi rizampettiamo come zombie per le chilometriche vie dei quartieri cool frastagliati di ville occupate da ricconi lanciati nella meditazione e nell’elevazione spirituale, che giungono da tutto il mondo, nei loro esili dorati, incuranti dell’opprimente povertà tutt’intorno. Megaville con piscine, alberi lussureggianti e vialoni con marciapiedi curati si trasformano man mano che arriviamo nei pressi della stazione in qualcos’altro, ovvero nel panorama più tristemente famoso nel subcontinente indiano, gli slum. Dobbiamo comunque riconoscere che Poona, nonostante tutto sia ‘migliore’ di qualsiasi altra città indiana visitata, almeno ha una parvenza di ordine e pulizia, se non altro, ci prova…
15 agosto
Risveglio ore 8, caffè sotto al tendone all’interno del cortile dell’albergo, dove una colazione a buffet propina idli (polpettone di riso da umettare in sugo dolce piccante – terribile), pan burro e marmellata e qualche dolcetto, si parte alla volta dell’Agra Khan Palace. Vale non ci seguirà, oggi non sta bene, decide di riposarsi un pochino… L’A.K.P. È un meraviglioso palazzo sito al centro di Poona, proprietà del multimiliardario indiano che lo ha donato alla città, in quanto, nell’edificio, dal ’42 al 6 maggio 44 vi è stato rinchiuso dagli inglesi il Mathma Gandhi insieme al suo segretario Mahadev Desai (morto in quegli anni di prigionia) e alla moglie Kasturba. Proprio qui, al suo interno, dopo aver visitato le stanze dell’esilio, ci troviamo di fronte a due strutture tipo pozzo scritte in hindi, in arabo ed inglese che ci avvisano che in una sono conservate le ceneri di Kasturba, e qualche pizzico delle ceneri dell’illustre marito, trafugate dalla pira da alcuni fanatici per depositarli vicino all’amata consorte (la restante parte delle ceneri, sono state gettate nel Nilo, Volga, Tamigi e Gange per completare poi l’opera finale, nella baia di Bombay, il 30 gennaio 2008, in occasione del 60° anniversario della morte). Quiet India. Saliti su un tuc tuc si va al Shaniwar Wada, fortezza nel cuore di Poona, distrutta a più riprese nei secoli che hanno preceduto l’arrivo degli inglesi, ma che mantiene intatta la cerchia muraria. Nel tragitto incrociamo il quartiere dove molti banchetti vendono ogni sorta di beltà realizzata con l’argilla, facciamo man bassa di ciottolate, santini e porta lampade, persino una testa di Buddah molto bella per Vale. In un negozio che vende antiquariato, entro cercando di trovare un oggetto che Vale cerca da giorni, un masala dani in legno da riempire con granelli all’anice e zuccherini. Il tizio mi dice di averlo ma in magazzino, io lo pago e vado in fiducia, me lo avrebbe spedito in Italia, chi lo sa? Mi piace pensare che lo faccia… All’interno del Shaniwar Wada si svolgono spettacoli musicali verso sera, mentre durante il giorno risulta essere frequentata da famiglie e ragazzini in festa. Al solito le richieste di fungere da modelli nelle foto ritratto di famiglia non si contano, tanto che, alla quindicesima interruzione, ci viene spontaneo il desiderio di gettarci dalle mura (o gettarci loro…) come avrebbe voluto tanto fare Andromaca… Dall’alto osservo il circondario e vedo qualcosa che scatena la stessa avida sensazione di un leone con una gazzella: innumerevoli banchetti che vendono santini antropomorfi e bracciali, collanine e mala, una vera ghiottoneria. Con Teo e la Bea facciamo incetta, tanto da strapparci di mano i rispettivi acquisti colti da attacchi di invidia. Io mi riempio come una madonna bizantina, la Bea pure, mentre Teo riesce a soffiarmi (anzi glielo cedo) un bracciale stupendo i rame (che più mi regalerà perché impossibile da indossare…). Oggi è l’anniversario dell’indipendenza indiana, ovunque si celebrano comizi ed adunate a base di vessilli tricolore con la ruota centrale, l’Asokha Charka, la ruota di Asokha, indecifrabile simbolo che allude probabilmente alla continuità.
Con i suoi possenti bastioni, il suo gigantesco portale borchiato e la pietra scura, certamente incute un po’ di soggezione. Subito, varcata la soglia, la temperatura sembra cambiare. Un po’ umido e un po’ ombrose, sigilla al suo esterno la città. Questo forte, al suo interno, sembra quasi un giardino a gradoni all’italiana. Nessun edificio al suo interno è stato risparmiato. Solo qualche fila di sedie manifesta il suo attuale utilizzo, ovvero quello di arena artistica per spettacoli serali. Il vento soffia ed arrotola come grossi tappeti le nuvole, regalandoci un cielo sereno e qualche raggio di tiepido sole. Giriamo le mura dall’alto, dove le famigliole ripetutamente chiedono photoo photoo… Bimbi in vivaci salopette di pile sventolano orgogliose le loro bandierine nazionali.
Oggi non mi sento un granché, Bea ingoia un dosa in una family rest mentre io e Teo una coca soltanto. Mi vien da vomitare. Rientriamo in albergo e ingoio una tachipirina che mi abbassa le due linee di febbre che covo. Dopo un paio d’ore di riposo e una scrosciante pioggerella monsonica batte incessantemente contro i tetti dell’albergo, doccia e di nuovo pronti a gettarci nel cuore della Poona moderna. Cerchiamo supermarket fichissimi in cui studiare la fauna locale. Ore ed ore spese perché la Bea si decida ad acquistare qualche abito, Teo, compra un set di lenzuola singole soggetto Superman per il suo materasso adagiato sul pavimento, e poi, cena da Mc Donald’s, con hamburger veg e altre prelibatezze speziate. Solita temperatura Alaska e un caffè al Costa concludono la nostra zampettata nella città modello. Uscendo scatta un alterco con la polizia locale, un anziano ubriaco cerca inutilmente di attraversare la strada ma continua a cadere, rampo per un braccio un passante e chiedo di far da interprete con uno scimmiesco vigile che mi ride in faccia. Non sopporto, lo sprono ad andare a salvarlo, lo fa, svogliatamente, come se gli costasse chissà cosa mettere un’anima in salvo… I grandi palazzi in vetro e cemento cozzano contro i poveri che costeggiano le scalinate degli stessi come piccoli ciuffi di fiori multicolore che sbucano tra le fessure di una strada lastricata. Si rientra. Hotel last night.
Lemure dixit:
In pullman sfoglio le pagine di Pasolini, L’odore dell’India. Ma l’odore dell’india metropolitana che mi accoglie a Poone è acre e sa di smog, molto peggio che a Milano. In confronto Bologna dove in questo momento si va a targhe alterne sembra Cortina. Poone mi appare come una grande baraccopoli inquinata come una megalopoli in cui svettano ogni tanto bellissimi monumenti del passato o bruttissimi palazzoni del presente, grigiastri, con gli scheletri di cemento armato ancora nudo in stile real socialista, un misto fra la periferia di Mosca e quella di Reggio Calabria.
È un’immensa discarica di tecnologia occidentale usata, autobus e automobili sono le nostre di 30 anni fa però sono numerose come le nostre di oggi e hanno i motori rifatti tre volte e le marmitte fumanti. La viabilità è ingarbugliata come i fili della luce del resto, non c’è più la giungla ma una distesa d’asfalto in cui i camion con la carrozzeria in legno personalizzata barriscono e scoreggiano come elefanti. Una giungla in cui le api taxi scattano da tutte le parti come gazzelle, in cui le moto, tutte rigorosamente d’epoca, hanno preso il posto dei cavalli anche se il casco ancora non ha preso il posto del turbante. Una giungla in cui le automobili ruggiscono come tigri e i bufali invece sono rimasti, unici testimoni di un ecosistema che cambia. A proposito di ecosistema. se questa è la piega che prenderà lo sviluppo del terzo mondo il mondo nel suo complesso non avrà uno sviluppo futuro.
Da Poona a Kolapur.
Mattina. Siamo in un angolo della città di fronte ad un piccolo albergo con ostico esterno, ad angolo tra due vie anonime. Un piccolo bus ci dovrà trasportare in un altro luogo dove un altro rottame lurido ci condurrà a Kolapur, a sud. Ad un certo punto, mentre l’attesa si fa noiosa ed insostenibile sotto il cocente sole, sale lei, un personaggio da Star Wars, una hajii, ovvero una transessuale hindi. Non la chiamiamo da subito Anumani (la dea-scimmia) con il prefisso Dis. Lei è di rosa vestita, con un sari lercio, con uno chignon di capelli luccicanti e miniborsa rosa. Lei si volta e guarda gli uomini con cupidigia, e non perde occasione di umettarsi le labbra con la lingua… si sistema il reggiseno, si gratta la cute, si fa la french alle unghie subito dopo essersi pulita le orecchie. Insomma, la nostra lady ci ha divertito oltre misura, riusciva a roteare la testa come una mantide a 360° e senza farsi nessuno scrupolo, ad ogni casello ci provava con qualsiasi uomo incontrasse… ad un certo punto, mentre non mi trattenevo più dal ridere, dopo aver fatto video e foto, ha estratto un telefonino in plastica per bimbi dalla borsetta ed ha iniziato ad utilizzarlo come fosse vero, mostrando a tratti qualche dissonanza con la sua età effettiva. La lady è poi passata alla trousse e poi ancora alle prese con un frutto succulento composto da moltissimi semi che l’hanno costretta a succhiare e pescare tutti i semi con le dita e gettarli per strada, noncurante dei passanti. Notando quanto ci stesse ormai divertendo, se l’è presa con la porta della cabina dell’autista, su cui svettava un poster di Ganesh. Ogni qualvolta salisse qualcuno, immancabilmente le veniva sbattuta la porta su menisco, insozzando ulteriormente il suo drappo rosa.… Anumani non demordeva, anziché spostare di un centimetri la sua gambetta, si lasciava sfasciare il ginocchio e poi con un gesto barbaro (seguito da una demoniaca risata) con la mano richiudeva violentemente la porta…intanto mostrava i seni, elargiva baci, con uno spillone si è ripulita le orecchie e con le lunghe dita si grattava i capelli bisunti. Tre ore così! Intanto, tutt’intorno un panorama sempre più amazzonico si susseguiva lungo le strade tortuose del Marashtra. Giunti a Kolapur alle ore 19,30 ci sembra di aver perso le gambe lungo. Un’intera giornata spesa sul bus.
Ci accomodiamo al Tourist Hotel dopo aver percorso una superstrada sotto l’acqua fitta fitta. L’albergo è molto carino, con camere disposte su una corte con ballatoio, pulite, ristorante interno e uno in giardino. La cittadina ci accoglie con la sua aria un po’ provinciale, anche se conta circa 1 milione di abitante. Colazione ricca fatta di idli insipidi e salse piccanti, caffè e te con biscotti e butter bread and jam. Sotto la pioggerella, tra clacson e moto sfreccianti, cerchiamo di raggiungere il complesso religioso di Laximi.
Prima tappa il palazzo del Maraja, con annesso mesto tempietto dedicato a Shiva. Il complesso di Laxmi, non molto distante, racchiude in sé molte edicole religiose, ognuna coi suoi riti e le sue usanze, i vivaci doni e gli intendi profumi. Tutto rigorosamente a piedi scalzi. Liberi tra i funghi e onicomicosi. Il Pantheon indù è davvero unico e cervellotico, ma molto variopinto e coreografico. Noi seguiamo la fiumana umana come ramoscelli trasportati dalla corrente, portando con noi fiorellini, granelli di zucchero e con un bel bindi simil mandarino in fronte. Bea si getta sull’altare della fertilità e implora, accarezzando il lingham, il miracolo… Visita nel nuovo Palazzo del Maraja, maltenuto ma molto ricco di fascino, colmo di scolaretti in scalpitante attesa sotto il porticato, che una qualche dozzina di ombrelli venisse a raccoglierli per portarli a casa. Nel suo interno, un intero genocidio animale, tigri con occhi a palla, aironi, elefanti, tartarughe, linci, antilopi… e poi pugnali, carrozze, gioielli ed armi, vestiti, oggetti di arredamento improbabili, antropomorfi con lampadari della Murrina ed arazzi georgiani. TRASH! Dopo questo giretto una tappa alla Tawn Hall, bella, bellissima. Ora cerchiamo tra i viottoli fangosi di uscire dal giardino circostante, una fitta pioggia si getta sui laghetti e le fontane circostanti come una tempesta di spilli. Cerchiamo di raggiungere l’arena dove si allenano i lottatori kolapurini, ovvero, energumeni muscolosi dalla pelle ambrata, unti come dei pesci fritti, che si strattonano in un’arena tra odore di piscio e sudore… aberrante. Il problema è che prima di giungere in quell’angolo dimenticato da Dio (perché ad agosto non ci sono spettacoli, tutto è abbandonato a sé stesso, tra erbacce e pozze gigantesche) ci siamo seduti, erroneamente in un auditorium dove dei medici si preparavano ad una convention (e noi che credevamo di assistere all’uscita degli eroi nerboruti…). È tempo di bazar, mentre lo stiamo cercando tra le viuzze, mi imbatto in un orologiaio, con me ho portato il vecchissimo orologio di mio padre, con il cinturino rotto almeno una ventina di anni fa. Lo faccio riparare, il gentil signore, in pochi minuti mi riadatta un cinturino in metallo, levigando le escrescenze con una pietra. Per meno di un euro (50 rupie) mi rende felice. Sono contento di aver portato con me questo orologio di babbo ed averlo fatto riparare. Spero di averlo con me per molto tempo ancora. Qualche metro più in la, in un negozio di chincaglieria domestica, acquistiamo ciotole e fornelli, un signore armato di una piccola fresa, è addetto all’incisione e personalizzazione dei vettovagliamenti. Mi faccio incidere INDIA (in hindi) sul cinturino. Rientriamo al T.H. dove si cerca di resettare la camera, con tonnellate di regali da confezionare, imballare e sistemare nei modesti zaini. Cerco con le mani di raccogliere fogliame e briciole depositate sul pavimento e mi guadagno il soprannome di Dalit (Bea: nemmeno i dalit farebbero così… Paolo, sei inguardabile!). Lei è tutta sconvolta dal ciclo, Teo dal caldo, Vale si sta riprendendo dal malessere quotidiano. Sembriamo un lazzaretto ambulante. Ci chiamano dalla reception per consegnarci i biglietti del bus per la partenza, sbagliano la data, fanno un casino che nemmeno in una contrattazione nel suq. Ceniamo nel ristorante dell’albergo, con tre camerieri impinguanti intorno al tavolo che cercano di assecondare (servizio assolutamente non richiesto) ogni singola richiesta.
18 agosto
Nei dintorni di Kolapur risultano esserci siti archeologici e complessi sacri di notevole interesse. Per circa 1200 rupie affittiamo un’automobile che ci condurrà a spasso per i siti circostanti. Prima tappa Jotiba, un complesso templare che risulterà essere l’esperienza mistica più interessante di tutta l’India. Jotiba è una divinità e per esso, i fedeli ricreano periodicamente (credo ad ogni plenilunio) una festa del colore in cui il fucsia la fa da padrone. Scendendo le umide scalinate, una fumana di gente risale completamente intrisa di questo colore forte e in contrasto con le pietre scure del complesso. Pure noi veniamo scarabocchiati lungo il percorso, tanto che all’ingresso siamo già ben amalgamati con i fedeli. Lungo la strada gustiamo dolcetti sacri alle mandorle ed acquistiamo pupazzi per allontanare malocchio & c. Mi dispiace Vale non ci sia, ma oggi di nuovo non stava bene. Prego per lui e spero davvero possa rimettersi presto. Nel l’interno una fiumana di gente si incolonna sotto al perimetro dell’edificio principale, ci viene consegnato del cocco fatto a pezzi imbrattato di polvere fucsia da scagliare contro le pareti e di conseguenza, in caduta libera su passanti, ed un cocco intero da lasciare ai sacerdoti. Tutto si svolge secondo un ritmo che non crea né lunghe attese, né contrattempi. Tutto fluisce secondo il normale scorrere del tempo che imperturbabile vede il ciclo di preghiere svolgersi così come lo osserviamo noi, da secoli, con l’unica differenza che le foto ed i cellulari la fan da padrone… giro lunghissimo, sali e scendi, dentro e fuori e riemergiamo da quella bolgia umana per risalire i gradoni. Bea decide di farsi forgiare e indossare bracciali in plastica che una signora, armata di fornellino, le salda ben bene addosso, impedendole di poterli togliere se non per mezzo di un martello… L’autista ci attende e dopo le innumerevoli foto di gruppo con gli indù in gita famigliare, saliamo in auto diretti al Panhala Fort, un paesino delizioso dall’aria abbandonata in cui si vedono templi e cannoni tutt’intorno. Il P.F. è grandissimo, anche se dall’aria completamente abbandonata. C’è pure un serpente che si aggira. Dopo un’ora circa in auto ci fermiamo al Rankala Gat, la scalinata a gradoni nei pressi di Kolapur, dove dei ragazzi recuperano dal fondale del fiume, dove i gradoni si gettano nelle putride acque, immagini sacre separando la parte cartacea da quella in metallo o legno, ciotole, e doni risparmiati dalla corrente. Una signora anziana, poco più in la getta i suoi shari colorati nelle acque cercando di lavarli ed insaponandoli un poco…. Sembra un’acrobatica danza con stelle filanti. Recuperiamo i biglietti (finalmente) dei bus che ci attenderà nei pressi dell’albergo ore 22,30 di sera, dopo una cenetta nel garden dell’albergo, deliziosa. Ore 22.10, ci rendiamo conto che il bus non passerà mai sotto all’albergo, per cui, caricandoci gli zainoni in spalla corriamo verso la stazione. È buio, a me e alla Bea scappa la pipi. Molliamo gli zaini a Vale e Teo per corre a poter liberarci del fastidio. Non troviamo nulla di meglio che infilarci nel Sony Hotel, che però ci rimbalza. Entriamo in una stamberga come mai nella vita, per chiedere una toilette. Ci dice di salire al piano superiore, camera 102. Abbiamo solo 3 minuti prima della partenza e in India sono puntualissimi. I bagni di un albergo ad ore fanno paura, zozzi, i materassi divelti e le pareti miodddddio! Ci liberiamo dell’incombente fastidio e torniamo di corsa verso il bus. Teo ci guarda con occhi colmi di odio. È già solito ed ha visto le cuccette. Ne abbiamo una a coppia e io starò con Vale, non solo per affinità, ma anche per un motivo di ‘incastro logistico’, Teo per starci, ha bisogno di una figura minuta e piccina come la Bea perché altrimenti nella cuccetta lunga un metro e cinquanta, lui di oltre due metri non ci starebbe. Beh, le comiche, dire che morivo dalle risate nel vedere il gigante e la formica incastrati nella cuccetta ricca di acari ed afrori da savana, è poco… Un’interminabile notte, dove ogni tanto il bus inchiodava per far scendere la marmaglia a sgranchirsi le gambe e a far fumare a Teo una sigaretta (gli indiani non fumano, anzi, non è permesso in prossimità di edifici governativi e nemmeno su alcuni marciapiedi – a discrezione del poliziotto di turno). Teo ci maledice, mentre io e Vale dormiamo, lui non ha nemmeno più il Germo Zero spray da spruzzare sui sedili perché nel frattempo lo hanno zanzato.
Oltre 7 ore di bus, ci rovesciano all’alba del 19 agosto a Bombay, a coriandoli. Ci muoviamo come bambole rotte, su un marciapiede, raccolti da un taxi che ci scarica al carinissimo Hotel Moti, ma pieno che ci rimbalza al Broadway, una via parallela prima in Colaba. Questo è il quartiere più pittoresco della città, primo approdo portoghese in India, uno sperone che si getta nell’oceano come un enorme piede decorato con henne. Piazzati gli zaini, doccia e via per Colaba. Mentre ci dirigiamo al Leopold, finalmente riassaporo le pagine di Shantaram, dove Robert svolge i suoi loschi traffici tra le insegne agee e i turisti dall’aria lercia. Guardandosi intorno, si possono vedere le iscrizioni dei compound residenziali persiani, segno inequivocabile della forte presenza zoroastriana in fuga dall’avanzata araba in Persia nel VII secolo. Si passeggia verso Gatway of India, dove scopriamo che il lunedì non ci sono battelli per l’isola di Elephanta, di fronte a Bombay. Tra un banchetto e l’altro in taxi sfrecciamo verso la moschea di Hajii Ali, una piccola isoletta su cui sorge una moschea in mezzo all’oceano, sorta nel luogo dove approdò la bara di un sant’uomo andato in pellegrinaggio alla Mecca e naufragato sin li. Collegata alla terraferma da una sottile e serpentesca lingua di terra lunga 700 mt e larga non più di 2 metri, battuta dalle onde putride delle acque portuali che frenano l’intraprendenza di Teo e Vale, mentre io e la Bea ci spingiamo oltre le nostre paure. Non per molto, dopo esser stati docciati dalle fredde e sporche acque un poco pericolose, torniamo indietro, sembra impossibile per due cristiani come noi trovare la forza di spingerci oltre l’aggressiva resistenza marina sino all’ingresso sacro. Di ritorno acquistiamo dei punteruoli in metallo su cui i versi del corano decantano le doti del profeta, da apporre negli angoli di casa e qualche henne e kajal. Sosta in banca per cambio valuta e giretto nei templi locali di cui uno dedicato a Laximi. Optiamo per la visita al meraviglioso museo dono di un dotto locale alla città, il Dr. Bhau Daji Lad Museum, un palazzo stile Ermitage di San Pietroburgo.
Curatissimo e lucente, scintillante, un vero palazzo reale in cui è possibile ripercorrere la storia della città dalla sua fondazione, con plastici e quadri, passando per vasi cesellati, sculture lignee, gioielli e divinità in pietra. Rientriamo alle ore 16 in albergo, per fare i bagagli e cercare un albergo più carino dove spendere le ultime due notti. Risultano essere uno peggio dell’altro, tant’è che si ha l’impressione di entrare in case private sfasciate e puzzolenti. In uno addirittura ci accolgono tre donne nigeriane abnormi, mentre mangiano banane e si puliscono i piedi in un salotto da bordello dismesso del Gabon. Scappiamo a gambe levate. Torniamo al Broadway Hotel con la coda in mezzo alle gambe. Ceniamo in ristorante cinese.
20 agosto
Sveglia presto, auguri alla Paolina che oggi compie gli anni e colazione al bar vicino al cinema che ha visto la nostra prima esperienza cinematografica di qualche giorno fa. Un battello ci porta verso Elephanta, dopo circa un’ora in pieno oceano. Avvistiamo una mega chiatta trascinata da navi e tiranti per entrare nella baia, un lavoro molto faticoso. Il giro è davvero stancante, anche se vedere la Gateway of India dall’oceano è davvero meraviglioso. L’isola ci accoglie con un molo stracolmo di detriti ed immondizia, patrimonio dell’Unesco, trascurata ed invasa da poveri cagnetti magri ed affamati e scimmiette con il musino rosso. L’isola deve il suo nome all’enorme pachiderma in pietra che videro per primi i portoghesi nel XV secolo e che ora troneggia all’esterno del Dr. Bhau Daji Lad Museum, trascinato li dagli inglesi. Sull’isola ci sono di nuovo grotte e grotte, e turisti. Poveri cagnetti, che nodo alla gola. Ritorniamo verso il molo e poi verso la terraferma, attoniti. Ripassiamo al Moti Hotel che ci comunica di non aver preso sul serio la nostra prenotazione del giorno precedente e di non aver la camera promessa. Ma le sorprese non finiscono qui.
Torniamo verso il B.H. rassegnati a restare divisi in quell’anonimo hotel e scopriamo amaramente che non avendo confermato la camera, non abbiamo più un posto in cui stare. Il proprietario ci indirizza al Gulf Hotel, gestito da un muslim gentilissimo. Il Gulf è di fronte al Theobroma Patisserie, una vera delizia per i golosi. Pulitissimo, lindo, albergo creato per i ricchi omaniti in vacanza in India. I ragazzi del Broadway Hotel si coricano in spalla lo zaino di Teo, che dal peso, ne mette k.o. uno, facendolo ribaltare sotto il suo peso come una tartaruga sul suo carapace. Io porto il mio e la Bea il suo, Vale attende con Teo, li, nella hall del Gulf. Ci danno un camere per 4, piccola ma accogliente, siamo tutti insieme, che bello! Non si capisce bene perché ma Bombay è stracolma di turisti e di agenti di commercio legati all’industria cinematografica, per questo si fatica a trovare alloggio. Su consiglio del muslim capo, ceniamo allo zanzarificio non lontano da li, al 5 Spices Restaurant, famoso ma pessimo ristorante del quartiere. La luna orientale brilla in cielo, su nuvole zuccherine in un blu profondo. Guardando gli enormi banjan che incorniciano le vie ombrose di Bombay, la Bea decanta la lussuriosità e magia, prerogativa di quelle terre esotiche. Un topo gigante corre da una parte all’altra della città mentre zampettiamo verso Starbucks per gustare un caffè all’aria condizionata contro l’insopportabile umidità bombeina. In camera pasticcio la Bea con henne e insieme a lei ci battiamo perché la temperatura in camera arrivi almeno a 18°. Vince Teo che ci iberna.
21 agosto
Ultima giornata da dedicare interamente allo shopping, tutta. In primis vorremmo andare al Chor Bazaar, il più famoso agglomerato di oggetti di recupero ed antiquariato di tutta l’India per poi dirigerci verso il Crowford Market. Colazione al caffè adeso al Cinema Royal, indemoniati come saudite in Montenapoleone, pronti a tutto. Il Chor Bazaar si presenta ai nostri occhi come le Antille si mostrarono agli occhi di Colombo nel 1492. Un paradiso di oggetti, non vi era cosa desiderata che in quell’angolo mancasse. Volevi una cosa in legno, nessun problema, te l’avrebbero fatta, Giradischi? Vinili? Targhe? Tutto. Manifesti pubblicitari, statue di divinità. Vale acquista un Ganesh enorme, io targhe e scatole in legno, Bea manifesti e Teo cerca di trattenersi, a lui fa male la panza! Molto male. Dopo circa tre ore spese in quei meandri, quando i conati da shopping iniziavano a farsi ben sentire, abbiam deciso di recarci al Croford Market. Un pezzo in taxi e Teo non ce la fa, ci abbandona in un angolo vicino al mercato e con tutti i nostri acquisti corre in hotel, per deflagrare la toilette. La vendetta del condizionatore è compiuta. Noi alleggeriti dei bagagli continuiamo imperterriti per le restanti ore ad acquista cose: vestito maraja per Bazoo, melograni e banane per noi, shari, gioielli, catenine sonanti da soffitto, targhe Om in metallo, piatti/foglia per vernissage, magliette. etc. etc. Quando poi verso le 3 la nausea si è fatta insostenibile, siamo rientrati. Il problema dell’impacchettamento lo avremmo affrontato verso sera. Salti mortali per incastrare tutto e contenderci i pochi centimetri liberi di spazio per salvare ogni singolo acquisto. Ceniamo in anonimo ristorante famigliare pseudo elegante nel cuore di Bombay. La notte la trascorreremo in aeroporto per volo ore 4.40 e partenza 5.55 verso Istanbul. Il saluto a Bombay avviene mestamente al controllo passaporti, solito teatrino dove vengo perquisito sia da uomini che da donne. Vacanza stupenda, con compagni meravigliosi. Sull’aereo verso Milano, Muraccio mi confessa di aver trovato 1000 rupie… è così e basta!
Impara la lezione dell’albero: resiste al calore del sole e regala agli altri la freschezza dell’ombra, recita un famoso proverbio indiano…
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