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Cairo, mordi e fuggi

Cairo, mordi e fuggi

10 ottobre.

Ci sono zone del mondo che ti vivono dentro, ti appartengono più di altre, sono parte stante del tuo essere e di quello che hai sempre desiderato fare. Ti possiedono, emergono e creano nostalgia, ti accompagnano, finche, per la 30esima volta, decidi ti tornarci. Quest’anno, nella mia testa, si celebra il cinquantesimo genetliaco della Bea, a settembre, e come farla felice, per questa occasione si unica, se non portandola in Egitto, al Cairo, dove lei ha passato parte della sua adolescenza, e con cui, insieme a me ci siamo stai molte volte? Nessuna meglio di questa. Così che mi lancio nella ricerca dei voli più consoni, nella settimana successiva al suo compleanno. È maggio, mancano ancora molti mesi, ma si sa, per vivere al meglio tali occasioni, è meglio agire anzitempo cosi che l’attesa renda ancora più desiderabile la partenza. È sera, la chiamo, chiaccheriamo e con goffi giri di parole, ruoto intorno ai dati del suo passaporto, cercando di essere paretale, ma non mi riesce. Vado al dunque e le illustro il progetto. Le accenno del ‘regalo’ salvo poi scoprire che non sarebbe stato il 50° ma il 49° compleanno. Mannaggia. Va bene comunque, ormai l’idea mi pulsa dentro con anima lavica. Prenoto, dal 10 al 13 ottobre, così per restare in trepidante attesa sino alla partenza… È venerdì mattina presto, alle 8 sono già in piazza della Repubblica dove ho puntello con la Bea. Ci si abbraccia, guardandosi in viso su cui già aliena una velatura di follia. A piedi si va in Stazione Centrale, dove prenderemo un bus per Malpensa. Nel volo si fanno progetti e si rivangano ricordi, e soprattutto, per quanto mi riguarda, cercherò di fare tutto quello che posso per ‘cancellare’ il brutto ricordo della mia ultima volta, nel 2013, proprio nei giorni della rivoluzione anti-Morsi. Alle 14 siamo al Cairo, ma nessuno dei due riconosce lo spazio intorno, ebbene si, perché nella frenesia edile che pervade in quella megalopoli da almeno 5 anni, il nuovo aeroporto fa parte del progetto della New Cairo, ovvero, una nuova capitale, adesa alla vecchia storica città, in cui trasferire tutti i ministeri e le infrastrutture. Da qui, in taxi siamo in Thalat Harb, il tassista ci scarica per 250 pound di fronte alla famosa pasticceria Groppi, che è chiusa perché in ristrutturazione, dal basso si scorge la facciata del Palazzo Yacoubian, che con la sua centenaria ‘allure’ liberty, si manifesta orgoglioso un po’ incipriato di polvere di piombo. C’è polizia ovunque, posti di blocco e armi come fiori in un campo di primavera. A piedi cerchiamo di dirigerci al nostro albergo ‘The Holy Sheet’ posto in Al Qadel Al Fadel, Holy Sheet (il nome, che vorrebbe richiamare ‘lenzuolo santo’ richiama foneticamente tutta un’altra cosa…) un quadrilatero di edifici in stile liberty proprio vicino alla chiesa Armena, ex area coloniale, in cui alcuni palazzi brillano di luce e facciate splendenti, mentre altri si adagiano su marciapiedi divelti e ogni sorta di abbandono domestico, percorsi da gatti in cerca di qualche fugace rapporto notturno. Due rampe di scale, squallidissime con un ascensore tirata su a corda, rappezzata alla bell-e-meglio, immagino un tempo meravigliosa con la sua gabbia di ottone luccicante decorato con flessuosi fregi floreali e finiture in radica, corrimano cha avranno accompagnato palmi guantati di signori di un certo lignaggio, ora sono cosparsi si polvere appiccicaticcia e intonaco caduto delle pareti. Al piano ci accolgono due ragazzi giovani, uno palestrato che esplode nella sua maglietta in lycra ed uno seccarello che ci sciabatta incontro.

L’accoglienza è la tipica dei ragazzi cresciuti nell’internazionalità di queste zone franche che sono gli ostelli turistici. Ci vengono chieste le generalità e veniamo invitati a sederci giusto il tempo per accertarsi che la camera sia in ordine. L’albergo è stato ricavato da un grandissimo appartamento, una specie di 300 mq di casa che hanno pensato bene – cercando di fare il loro meglio – di globalizzarlo con tappezzeria kitsch che riprende i vari elementi che caratterizzano le città europee, tra cui bus a doppio livello londinesi, tour Eiffel, Colosseo etc etc. Di fianco a noi, due ragazzi olandesi abbigliati in maniera improponibile, stazionano mollemente, scalzi, sui divani. Lui con maglia gialla ipnotica di qualche squadra di calcio olandese che riporta il logo Opel, calzoncini sintetici e una capigliatura alla mullet anni ’80, con baffoni biondi che incorniciano una bocca sottile, altissimo, mentre la fidanzata, incollata al cellulare, una versione gotica di una contadinella delle fiandre in total-black, con foulard gucci (g minuscola) proveniente da qualche shop in Qasr el-Nil specializzati nel fake-fashion. Finalmente entriamo in camera, è dignitosa e ordinata, il nome ‘lenzuolo sacro’ rispetta i criteri, il bagno è ricavato con pareti in vetro molto alte che arrivano quasi al soffitto, ma non totalmente isolato, ci permetterà in tempo zero di abbattere i soliti timidi convenevoli dettati dai primi minuti di convivenza forzata. Scarichiamo bagagli, doccia veloce, sistemazione ed usciamo. Bea vorrebbe recarsi nel vecchio palazzo dove abitava la sua famiglia, per rivedere Sabry, il socio e salutarlo. Vorrebbe far lui una sorpresa, nella speranza che sia a casa. Percorriamola via Midan Falaki in direzione del palazzo, piccola sosta nella chiesa di San Francesco, un bel edificio cattolico, retrostante una piccola piazzetta recintata e piena di fiori. Un custode ci guarda basito, forse perché i fedeli cattolici saranno ormai veramente pochi al Cairo negli ultimi anni. Raccolgo dal pavimento un rametto reciso di miseria viola, e il custode, doppiamente basito, interrompe persino la pulizia del pavimento con la scopa di saggina. Sotto al palazzo di babbo Bea, ci accoglie il portone in ferro spalancato, dall’interno fuoriesce il profumo di fumo e polvere tipico degli edifici lasciati alla cura di personale egiziano. Bea si commuove, ci si abbraccia con un po’ di forza, entra per chiedere al custode che, con rammarico non risulta esser più Mansour, ma un ragazzo più giovane a cui chiede di Sabry. Lo chiama e dopo pochi secondi, un ascensore ci porta dal quarto piano. Si apre la porta e Bea volge subito lo sguardo verso la porta – un tempo – di casa sua, ed ora occupato dal figlio di Sabry. Si bussa, entriamo e veniamo accolti da una giovane ragazza africana, che in inglese ci invita ad entrare ed accomodarci nell’attesa che Sabry sopraggiunga. Tutt’intorno una casa con aria condizionata abbastanza pungente, immagini copte e un arredo che ricorda molto le nostre case anni ’70. Sabry arriva, abbraccia la Bea che ormai copiosamente ha aperto le dighe e iniziano a parlare fluentemente tra loro. Ci viene portato del te, dei biscotti arabi (mahmul e fakkas) preceduto da ordini – un po’ cafoni – impartiti alla colf senza mai dirle ‘grazie’. Chiacchierano della salute di Sabry, della sua famiglia e del suo ormai imminente trasferimento alla nuova Cairo, dei ricordi della primavera araba dove il sangue scorreva sul marciapiedi antistante casa e dove i feriti venivano ricoverati nell’ingresso del palazzo. Un ricongiungimento molto sentito dove viene ribadito a più riprese la sua profonda amicizia con il Sig. Romano e la totale disponibilità a cenare insieme e al mettere a disposizione la sua auto per andare ovunque. Ci lasciamo cosi, percorrendo quei pochi minuti in ascensore, un po’ contriti, ma che, mi ha fatto piacere condividere. Bea è più leggera, riguarda dal basso il balcone di casa e come una metafora della vita, il cielo e i suoi abitanti stanno sempre in alto, insieme ai ricordi. Lo storico negozio del caffè vicino al palazzo è chiuso, mentre pochi metri dopo, il locale coshari più famoso del centro, ci attende con i suoi marmi obsoleti, il profumo pungente e la predominanza di azzurro sulle pareti. I camerieri molto prodigamente ci chiedono l’ordinazione, due coshari medi, con salsa. Io e lei amiamo quel piatto misto di pasta-riso-cipolle-lenticchie. La dose media è abbastanza a sfamare due persone, due piatti risultano fin troppo abbondanti, così da farci sentire così sazi che il minimo sarà varcare mezza città a piedi per digerire. La passeggiata volge verso l’imbrunire ed è cosi che percorrendo il ponte Qasr el-Nil, forse il ponte più bello che mi sia mai capitato di vedere, elegante, che vibra leggermente a ridosso delle onde e sotto alle auto che incessantemente lo percorrono per varcare il leggendario Nilo, con i suoi monumentali leoni in bronzo, che ci accolgono con questa atmosfera tutt’intorno tipicamente africana, per la passeggiata sospesa, dove migliaia di persone, si riversano per prendere una boccata d’aria, unico punto questo in cui si può respirare il vento del deserto. È molto bello il momento, la Bea mi fa notare come si senta ormai vecchia e demodé dal momento che il molleggiare dei ragazzi egiziani, che muovono sistematicamente avanti ed indietro le braccia, non arrivino a sfiorarle il fondoschiena, cosa che le fa ricordare quella sensazione passata di ‘camminare a chiappe strette’ per il terrore di essere molestate.

Oltre al ponte c’è il quartiere di Jezhira, un ex-lussuoso block coloniale, dove palazzi eleganti, sporting club, l’Opera House e alberghi dai nomi altisonanti, arricchiscono questa isola in mezzo al Nilo. Dal ponte Qasr el-Nil in direzione ponte 6th October è una bella passeggiata, poche auto, aria surreale, costeggiando i giardini ormai chiusi, si notano le centenarie targhe delle vie, in metallo lamellato, dipinte di blu e con inscrizione bilingue, meraviglioso retaggio di una meltin-pot estetica tipicamente levantina. Mi sono sempre piaciute, le ho sempre amate, e in giro per il mondo ne ho recuperata qualcuna. Bea vorrebbe andare al Mariott Hotel, per respirare qualche ricordo delle sue prime esperienze cairote, quando, il suo babbo, giunto in Egitto 30 anni prima, le aveva momentaneamente parcheggiate qui. Entriamo dl retro, cosi da evitare i controlli, praticamente da dove sicuramente transitano camion delle vettovaglie e immondizia. Siamo in questa incredibile struttura, alloggio dell’élite e dei turisti a quattro zeri. All’interno, battezziamo i bagni profumati, percorriamo la hall in direzioni dei giardini con tavoli bordo piscina, un lusso anche se solo visivo, che ne vale la pena, perché all’interno questa struttura puoi davvero permetterti di sognare. Ci accomodiamo ad un tavolo dove consumiamo una boisson sotto ad un luccicante cielo blu. Anni fa, io lei e la Manu, ci abbiamo passato un capodanno, presso il casinò Omar Khayam, falcidiando, in pochi secondi i nostri 10 dollari cadauno, per trovarci più poveri di prima in mezzo alla via, molto prima del sopraggiungere del nuovo anno. Il Cairo è questo. Vuoto e pieno, sempre e comunque, e una volta usciti da questa riserva dorata per lucrosi individui, passiamo per il caotico e brutto ponte 6th October, posto a pochi metri a nord del Mariott in direzione opposta per tornare verso il cento di Midan Tharir. Dopo una decina di minuti, coperti di polvere di piombo, ormai sordi per l’uso smodato del clacson, sbuchiamo a Bulaq, un vecchissimo quartiere alveare del centro, posto a nord rispetto al Museo Egizio. Ma qualcosa non torna. Bulaq? Bulaq è stato letteralmente raso al suolo, non esiste più, è un enorme cantiere in cui si vedono solo camion e ruspe, terra smossa. Bulaq, prima era un pulsante centro di raccolta, dove i bus partivano e ti portavano ovunque, dall’anima popolare e frenetica. Da qui i bus potevano portati a Tripoli, a Gerusalemme o ad Asswan, ovunque tu decidessi di recarti. Si costeggia a ovest i cancelli del Museo, per sbucare sulla piazza antistante con i soliti check-point, e magicamente, a distanza di anni, l’hanno terminata. È davvero brutta, con geometrie assurde in cui sbucano alcune aiuole con erba sintetica, anonima nel suo non-gusto moderno.

Attraversiamo la piazza e qui, all’angolo con la piazza rotonda di el-Tharir, veniamo ingoiati in quei ricordi passati, dove il segno della croce prima e dopo l’attraversamento era d’obbligo. I semafori stanti di fronte ai passaggi pedonali, sembrano volerti comunicare, con il loro lampeggiare ad intermittenza ‘walk like an egyptian’ ovvero, scruta con gli occhi la strada, intercetta un momento in cui ti sembra che le auto ‘potrebbero’ permetterti di attraversare, e parti, per interrompere la corsa tra un miracoloso rallentamento delle auto in divenire e corri di nuovo. È l’unico posto al mondo in cui non vige la regola del semaforo rosso e pedone che può passare, e si che la polizia per strada non manca. Bene, questa operazione, tra ansia e paura ci fa perdere dalle 300 alle 600 kcal. Di fronte l’enorme Mogamma, nonostante l’ora, presenta qualche luce accesa, sembra un enorme tavola da backgammon, messa in verticale. Durante la passeggiata di ritorno, percorrendo Sharia el Taharir, si nota qua e la qualche edificio storico restaurato, bella la città di notte, profuma nonostante tutto di un passato magico e glorioso, come se i mitici Gin delle ‘Mille e una notte’ amassero giocare scherzi e riportare costantemente l’osservatore a qualche secolo fa. Sembra presto per rientrare ma tardi per azzardare qualsiasi cosa, l’aria è tranquilla, per quanto possa esserlo al Cairo. Ossrvando le facciate degli edifici, ricordo un po’ quel negozio pieno di chincaglierie nei pressi della chiesa Armena, ma non ricordo dove, e soprattutto non trovo l’insega che quel posto meraviglioso che sicuramente si trova nei pressi del nostro albergo. Passeggiamo in lungo e in largo, ma ci sono solo serrande annerite dallo smog, abbassate e nulla che mi riporti esattamente a quel negozio ricco di un passato coloniale. La Bea ridacchia e lancia battute sulla caducità culturale egiziota, sulla frenesia (solo automobilistica) e sullo sfacelo e incuria, soprattutto dei marciapiedi che le fa tornare in mente le battute degli amici italiana residenti in Egitto da decenni. Un piccolo vialetto con luci e lampadine penzolanti apre su un piccolo cortile ingoiato da palazzoni, un angolo rustico ed autentico dove servono the e bibite e sisha. Ci accomodiamo comodamente tra gli sgangherati tavoli, le sedie zoppe e gustiamo di quell’aria cosi indigena. Una serata piacevole, un momento che ci fa gustare e assaporare le prime ore in quella terra, dove gli edifici butterati di condizionatori, le finestre rappezzate e le lenzuola stese già intrise di piombo fungono da paramenti. La passeggiata del ritorno, in perlustrazione alla ricerca di qualche negozio che possa venderci chincaglieria vintage, ma nulla. Al ritorno, nel quartiere in qui alloggiamo, gatti in calore si inseguono, qualche coppia passeggia al buio di splendidi lampioni inizio secolo morti e divelti, riconosciamo al buio l’ingresso del nostro albergo dalle polverose vetrine di un negozio che ripara lampade che è collocato alla destra dell’ingresso. Solita salita attraverso questa nobile scalinata che la sera, alla luce delle molte lampade al neon, sembra risplendere di un rinato orgoglio, lercia, tumefatta, ma bella, con i suoi intarsi in ferro battuto, i gradini in marmo ‘bianco’ che incorniciano l’ascensore sospesa a delle funi, come se fosse una treccia di capelli lanciata da una principessa segregata nei pieni alti. La camera ci spetta, ventilata, piacevole. La Bea a con sé anche il numero della signora Mara, la splendida toscana che anni fa ci accompagno per il Cairo. Ha provato diverse volte a chiamarla, ma sempre ha risposto una signora che farfugliava qualcosa di incomprensibile in arabo. Decide di delegare la telefonata ad uno dei ragazzi dell’albergo e armata di foglietto ed infilate le ciabattine, esce, diretta alla hall. Pochi secondi e si sente un rumore secco, accompagnato da un urlo lanciato nel corridoio, esco velocemente e la vedo inginocchiata su un improbabile gradino posto a meta del corridoio sotto cui, in un remoto momento di risistemazione edile, avranno cercato di farci passare tubi e cavi elettrici. Il gradino è mascherato da ambo i lati da delle piccole grate alte 15 cm in legno intarsiato, retroilluminato. Ecco, lei ha ben deciso di infilarci dentro il piede, sfasciando completamente la grata… piagnucola, la risollevo, sistemiamo alla bell’è meglio e claudicando si dirige verso i ragazzi, che sembrano non essersi accorti della débâcle.

11 ottobre

Una colazione al tavolino posto nella hall dell’albergo, un vetro opaco su cui alloggiano un paio di banane, the, caffe e un biscotto lungo su cui spalmare marmellata e burro. A parte la sbirciatina dal vetro della camera che dava sul tetto di quelle che sembrava un’officina, non abbiamo iodea di come possa esser stato il cielo. Il buio della hall è un’incognita anticamera dell’estero. Il nostro primo giro prevede la passeggiata alle Piramidi – viste davvero tante volte – ma sempre un richiamo irresistibile a chi passa da quelle parti. Sono sempre loro 3, imponenti e maestose, millenari e vive, con tutta quella umanità che ne circola ai piedi. Emozione dopo l’arrivo in metropolitana.

Il passaggio successivo è la Cairo copta, altro angolo singolare di quella millenaria e spirituale terra. Ogni via porta con sé rievocazioni che si annodano al percorso spirituale legato ai santi egiziani. La Muallaqa, la chiesa di San Marco e San Giorgio, con il suo cimitero – museo a cielo aperto e quelle viuzze costellate di venditori di cero artigianato locale, irresistibili, quali lampade in vetro e in terracotta, che acquistiamo. Anche il polveroso museo Egizio è un richiamo ancestrale, ma è chiuso, perché giovedi pomeriggio, il giorno che precede il santo venerdì. Non si capiscono gli orari, da che ne stanno cercando di trasferire buona parte dei reperti alla nuova sede di Gizah. Resta molto tempo. Troppo per una giornata cosi lunga e senza nemmeno convincersi a vicenda, dopo una doccia siamo su un taxi per il mercato Muski. Qui c’è tutto ciò di cui puoi necessitare per vivere ed arredare una casa in puro stile levantino. Accrocchi in tutte le possibili soluzioni e forme, materiale e tutto a prezzi accessibili. Questo mercato è frequentato pressoché da local e non ha nessuna intenzione di sedurre i pochissimi turisti di passaggio. Anzi. Il piccolo negozio che da secoli produce fez, con la sua insegna in lamiera meravigliosa, entriamo, è polverosamente bello ed affascinante, un piccolo backstage di un teatro che riporta da tempo immemore le stesse persone a fare le stesse cose, senza mutare. Passiamo per Bab Zweyla, Il cuore pulsante del mercanteggiare cairota, dove trovare un mestolo fatto con avanzi di lamiera e ciotole in legno fatte ad hoc al momento. Acquistiamo due bollitori in metallo laminato, molto belle e che potrebbero arredare una cucina polacco degli anni ’20, in un fantastico blu prussiano. Cena al Caffè Riche, che posto meraviglioso. I suoi maitre con panciotto bordeaux infeltrito, le stoviglie retaggio coloniale, il registratore cassa e tutta quell’aria così intrisa di quella parte di storia che è veleggiata via. Pareti che hanno accolto le parole di poeti e rivoluzionari, di comandanti e gente comune, ma che li ci si trovava per qualche motivo molto più importante del voler consumare qualche piatto all’occidentale. Prendo con me un cucchiaino. Si torna al ponte, una sosta lungo il Nilo, accomodati su sedie di plastica, dove un ragazzo ci porta il the, di fianco a noi, timidi fidanzati si guardano negli occhi e la in quelli di lei vedo brillare la luce che sembra il riflesso dei lampioni che costeggiano le strade di Zamalek, di fronte. Amore di Cairo.

12 ottobre

Bea mi precede, facciamo colazione fotocopia del giorno precedente. I muezzin hanno già cantato e ricantato la melodica lode ad Allah che da Bab el Luk poi riecchegggia da minareto a minareto in tutte le mille moschee della città. Oggi visitiamo una parte del Cairo adiacente alla famosa moschea di El Azhar, il complesso si chiama Whekaletr quartiere Al Amlya.

Ogni pietra di questo meraviglioso complesso proviene dal Muqattham, il monte del Cairo, cava che ha donato queste splendide pietre dal delicato color citrino alla città. Le sue innumerevoli scale, le mesrabyye e le finestre a sesto acuto non fanno che stordirti. Tanto si fatica ad orientarsi in questo dedalo di stanze che si susseguono, quanto più si è convinti di raggiungere un livello si stordimento sbalorditivo. Le pareti in pietra a righe che ricordano le cattedrali delle città italiane, influenza mercantile, gli arredi in legno, i tappeti tutti differenti. I profumi, o meglio gli odori di umana devozione. Per raggiungere il tetto ci imbattiamo in valigie piene di documenti dimenticati, mappe e progetti di qualche decennio fa. Li polverose e inutili, un catasto a cielo aperto. Le sfogliamo con il desiderio di possederne qualcuna, ma non ce la sentiamo. Raggiungiamo il tetto di uno di questi millenari edifici che termina con un a cupola, sembra un’altana, che da su un terrazzo ricolmo di detriti. Molti edifici al Cairo ne sono pieni e spesso sono angoli curiosi. All’uscita non ci resta che entrare nella moschea più famosa del mondo islamico, quella che detiene lo scibile califfale, il gotha della sapienza tramandata da millenni, da qui possono essere enunciate le fatwa più radicali o al contrario essere prese le decisioni più morbide riguardo alla secolarizzazione del credo. Il reggente Al Tayyeb è un illuminato imam cieco, amato e rispettato da tutti i ‘credo’ del mondo. Questa è la sua Versailles, anche se da come me la immaginavo è davvero poco interessante.

Bianca e lucente, la corte è rivestita di una ceramica lucente brutta e insignificante. Sicuramente nasconde una pavimentazione che sarà stata molto più bella anche se consumata da tempo. Purtroppo questa poco raffinata risistemazione si scontra con quanto di bello abbiamo visto pocanzi. Il suo interno aperto a ogni credo, è poco rappresentativo della sua grandeur, ma è un posto che conduce all’introspezione, interamente coperto di tappeti e con le sue piccole librerie piene di Corani ad uso dei fedeli. Delle pale girano mollemente su soffitti, come le gonne dei danzatori derivisci. Oltrepassata la piazza antistante, siamo a Khan el Khalil, un enorme mercato turistico nella Cairo vecchio. Un bazaar costellato di edifici interessanti, caffe e negozi di antiquariato. Sembriamo due api impazzite ai primi segnali di fumo. Si passeggia, si comprano tasbhe e caffe, ciotole e oggetti vari, persino una targa in laminato blu che reca la scritta ‘dunkan’ magazzino, di qualche decennio fa, mentre la Bea un disco metallico che recita preghiere (forse) dal colore azzurro e rosso.

Ripassiamo da Bab Zweyla e facciamo una piccola sosta in un baracchino su rote che cucina felafel ottimi, seduti su una panchetta appiccicosa. Dividiamo lo spazio con dei ragazzi egiziani sorpresi del nostro esser li, anche a propiro agio, mentre il ‘cuoco’ rovista in un catino azzurro coperto da un cencio del khobz azzimo da servirci. Ottimo pranzo. Per il passaggio da un quartiere all’altro non resta che servirci di un taxi, a quell’ora la città sembra essere ancor più congestionata, motivo per cui il governo ha deciso di costruire una nuova capitale. Atabah è un formicaio, brulica di vita, auto e roba in continuo movimento. Atterriamo in Thalat Harb nella speranza di trovare il negozio dell’antiquario che da sempre visito, ma che non ricordo bene dove sia ubicato, perché nascosto da una saracinesca simile ad un garage che apre solo la sera tardi. Un the per strada lungo il Nilo, e cosi come siamo, andiamo a cena da Felfela, accarezziamo nostalgici ricordi tra voliere vuote, acquari e pareti che sembrano decorate con il guano. Sul tavolo puzzolenti posaceneri ricavati dal tronco delle palme e vecchi manifesti e declami che ne ricordano l’antico splendore. Uscendo, altro giro per le vie del quadrilatero vicino alla chiesa armena iper sorvegliata da blindati dell’esercito ed ecco sbucare in lontananza il negozietto gestito dal signore asciutto fisicamente ma molto cordiale. Si esprime in francese, un bel francese molto romantico e non sembra esser scocciato dal nostro ingresso, anzi mi riconosce e interrompe momentaneamente una partita a scacchi con tre amici, seduti di fronte. Il negozio è piccolo, verde, stracolmo di oggetti e piante, noi rovistiamo e lui continua a giocare. Acquisto solo una vecchia confezione di the alessandrino da incorniciare, ma avrei acquistato l’intero negozio. Alle pareti quadri di re Farouq, coriici di ottone, mensole e grammofoni, teiere e set di posate. Parti di lavandini, specchi e polverosi pezzi di arazzo, cimeli bellici e abat-jour, tutto rigorosamente velato dalla polvere. Un’atmosfera stordente. Qui dentro ci abiterei, sposterei la mia residenza qui, seduta stante. Un caro saluto nella speranza di tornarci il giorno seguente.

13 ottobre

Ed oggi finalemente si può, è aperto, il Museo Egizio, il vero approdo della vacanza, quello spazio in cui persino un micio mummificato ti sembra un’opera d’arte. Tutto profuma di passato, dalle teche, ai papiri e pesino le lastre di pietra levigata in basalto elegantemente incise. I volti millenari ed austeri dei faraoni e le dame di corte, il loro sottile sorriso quasi beffardo e tutto quel corredo cerimoniale ormai morto che lascia fuori la modernità e l’islam soppiantatore di credi non ammessi. Maestosamente bello. Si respira la fumosa aria del Cairo, ancora per qualche ora. Zizzagghiamo per la corniche alla ricerca delle serre che adornano la rive. Meno di quante ce ne fossero in passato. Ne troviamo una sulla riva orientale del Nilo, esattamente sotto un ponte, lasciata l’ambasciata Italiana poco a sud del Kempinsky Hotel, di fronte un Sofitel Cairo di Zamalek sulla punta estrema nord dell’isola di Rodha. Io Prendo un’albizia, delle piante spinose e dei vasi in terracotta molto poetici. Bea anche lei si diverte con delle varietà topicali ed una palmetta per il giardino di sua mamma. Ci si guarda intorno e si spera di poter riassaporare quella pausa, che seppur breve, ci ha fatto bene.

Ore 14 in aeroporto. Non poteva che finire così. Carico di oggetti e vettovaglie, fiori e piante. Il mio cargo passa indisturbato ai controlli. Quello di Bea no. Nonostante le pianticelle fuoriuscissero da mio bagaglio a mano, non hanno suscitato rimostranze da parte del personale addetto al controllo, ma a lei noi. Fermata, accenno di sequestro delle pianticelle. Io che piantono a circa venti metri da lei i miei bagagli, la vedo con aria disperata avvicinarsi a desk dei controlli dove due panciuti egiziani, ignorano le sue lamentele giustificandosi con un freddo ‘not permitted’. La prego di lasciar perdere che intanto di piante ne avevo anche per lei ma capisco che non vuole demordere e con una strizzatina d’occhio mi fa capire di star tranquillo. Era questione di puntiglio, anche un po’ femminista. Pochi secondi dopo la vedo piangere, agitare dolcemenete i polsi e spiegare che quelle piante erano per la figlia Mia e la mamma. Ecco, tutto si risolve cosi, avvicinandosi a me e asciugandosi quelle lacrime di coccodrillo, mi dice sorniona’ … vedi, gli arabi sono come bambini, basta frignare un po’ e nominare la famiglia che tutto si sistema’ proprio come accadeva all’asilo. Bea ti amo, e con te l’Egitto. 

Moyseion

Graphic Designer/Publisher

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