È finalmente arrivato il giorno della partenza. Abbiamo lasciato alle spalle la torrida ferragosto, io Pinna e Manu, diretti in medio oriente. Stazione di Lodi, trenino diretti a Milano, stazione di Cadorna e aeroporto di Malpensa. Il volo farà scalo ad Istanbul… La mia cara Istanbul, manco da molti anni, sarei tentato di uscire dall’aeroporto, trascinando i miei compagni di viaggio, ma il tempo è poco. Dopo un paio d’ore arriviamo a Istanbul, tempo per cibarci e stappare una mini bottiglia di vino in un colorato snack corner in attesa del tardo imbarco per Damasco. Arrivo nella capitale quasi all’alba, l’aeroporto ha un non so che di sovietica, neon penzolanti da soffitto, un elettricista intento a riparare dei fili elettrici, che sembrano più delle gomene che condutture elettriche, in barba ala 626… Il bagno dell’aeroporto damasceno: un foro nel pavimento piastrellato. Punto. All’uscita, apparente calma, ma tutt’intorno si ha la sensazione che qualcosa si stia per muovere, e quando scatterà il segnale di partenza, sarà un gran bel formicaio… Si va alla Bus Station, un piazzale sterrato costellato di baracchino atti alla vendita dei biglietti per salire sui bus… Vengo risucchiato da una marea di corpi che volgono in una direzione, quella del cassiere. Mi ritrovo di fronte a lui come appena uscito da una lavatrice. Lui accenna un po’ di convenevoli, io do di lungo. Il piano d’appoggio mi batte sullo sterno, la pressione che arriva da dietro mi schiaccia il viso sul vetro. Urlo ‘talaata mhyn Halab’ ovvero ‘tre direzione Aleppo’ pago, e Manu, dall’ingresso del pertugio, con un braccio allungabile, come Carletto, il Principe dei Mostri, mi estrae… Un bus in circa 5 ore ci condurrà ad Aleppo, la prima tappa del viaggio. Sia per Pinna (Pinna è Raf) che per Manu, risulta essere la prima esperienza mediorientale. Io mi rilasso e mi addormento, loro mi raccontano di aver visto chilometri e chilometri di strada tappezzata a destra e sinistra di montagne di copertoni d’auto. Io ricordo solo piccole macchie di vegetazione composte da simil pini marittimi, molto bassi… Siamo nella seconda città del paese, è tarda mattina, poco prima di scendere un consulto veloce con la bibbia del viaggiatore, fa ricadere la scelta verso l’hotel Syria, in una via dedicata interamente a meccanici e gommisti. L’albergo ha un’aria anni ’30 riadattata agli anni ’70 (sovietici), la camera ha tre letti, piccola, con finestre in legno e un gran rumore che entra attraverso le persiane oscurate. Il bagno è piccolissimo, sembra esser stato progettato da un bimbo che si è divertito con le Lego… Lavandino e wc sono in asse verticale tra loro, se riesci a varcar la soglia, uno specchio rotondo riflette la tua espressione perplessa… Sguardo al lavandino, che ha conosciuto tempi migliori, a circa 40 centimetri sotto, la tazza. Raf ride di gusto, sostiene che quel bagno sia sta studiato per turisti giraffa, in quanto a noi tutti, abbastanza bassi di statura, l’accesso alla doccia, fosse precluso. La doccia era chiusa (per modo di dire) da tre pareti e dalla tazza wc. Il resto era a vista, costellato da una ragnatela di cavi elettrici. Davvero una creazione aracnide… Testata la doccia e riassestato il look, passeggiamo in direzione del castello. Un forte profumo di sapone all’alloro, il famoso Sapone di Aleppo, fuoriesce dalle migliaia di negozietti chiusi. Che buono! Un assaggio di mercato, in cui le tende svolazzanti sigillano discretamente i venditori. Il castello si erge su un colle a brufolo di circa 400 metri di diametro, tondeggiante, con un portone in bronzo preceduto da un vertiginoso ponte. Questo è il nucleo più antico della città, abitato da epoche immemori, durante il periodo greco (che chiamo la città Beorea) divenne l’acropoli. In epoca araba insediarono un castello, El-Qalah, che resistette a molte invasioni, oltre agli scontri coi crociati. Mentre attraversi il portale borchiato, senti su di te il peso della storia di quei luoghi, ti immagini assalti, colate di olio bollente, uno sferragliare di lame e caldo. Tanto caldo. La passeggiata è davvero bella, la sosta all’ombra di una torre con vista su al-Shabha, la grigia città, lascia a tutti noi una sensazione di esser seduti su una nuvola tonda. Aleppo è sterminata, si perde a vista d’occhio ed essendo la città più popolosa della Siria, risulta essere una macchia estesa nel contesto color ocra. È pomeriggio, il sole ti punge la schiena, il sollievo lo si può ricercare in vicoli ombreggiati, quelli della meravigliosa città vecchia, la Jdeyda, (paradossalmente il significato è città nuova), quella che sorse dopo la distruzione della città da parte di Tamerlano. Questo angolo medioevale, simile ad un gigantesco caravanserraglio, è quanto di più simile si possa trovare ad una polaroid di qualche secolo fa. Il quartiere è stato successivamente adottato da cristiani ed armeni, che ne hanno mantenuta intatta l’allure. Qua e la, si può trovare qualche testimonianza dell’olocausto armeno, lapidi, interminabili elenchi con nomi scritti in una grafia molto molto interessante, l’armeno appunto, qualche chiesa, negozi pieni d’argento e ristoranti tra i più belli mai visti, celati dietro un portoncino ligneo di raffinata bellezza. Acquisto un giga anello alto circa 10 centimetri, è incommensurabilmente bello, lo indosso tra lo sguardo perplesso di Raf (che mi sta alla larga) e Manu che se la ride… Idea del momento, Raf propone, passando dinnanzi ad un affollatissimo barbiere per giovani, di entrare per farci far la barba. Ebbene si, il rito della tosatura nei paesi arabi è lungo e macchinoso. I lavoranti ci accolgono felici e onorati della nostra visita non perdono occasione per lanciarsi in pericolose peripezie che solo un barman esperto di shaker può permettersi di fare (soprattutto perché non maneggia forbici e lamette).
Tutto si svolge sotto i nostri occhi, frizioni sulla pelle a base di acqua bollente e salvietta umidificata, rasatura doppia, tripla, quadrupla, schiaffeggiamento e frizionatura dei pori, per terminate, dulcis in fundo, con l’asportazione dei peletti sulle guance per mezzo di un filo di cotone stretto trae le mani e la bocca del barbiere che si muove grazie all’oscillazione della testa, asportando dolorosamente il vello superfluo. Usciamo tra gli schiamazzi, le foto e i ringraziamenti del pubblico con un’epidermide tanto liscia e curata da farci sentire come imberbi dodicenni. La sera la città si anima, passata la calura, i negozietti aprono, la brezza (Scirocco o Libeccio, boh, qui la rosa dei venti impazzisce, non avendo riferimenti italici…) soffia ed è un piacere camminare nei pressi della Torre dell’Orologio, vestigia francese che svetta elegante tra i clacson e il chiasso. Il quartiere del souk propone un ristorante davvero particolare, il Bazar el-Charq, una sorta di grotta in con volte di mattoni. Cena ottima, la pelle arrostita, l’eccesso di vino rendono quella cena così particolare, in quanto la prima in Syria, un ottimo ricordo. Uscendo, dopo i convenevoli, ci manca però qualcosa; Manu, sentendo il profumo della sciscia, propone una fumata in bar di autoctoni barbuti, Raf, ne farebbe anche meno… Un po’ schizzinoso finché non si rende conto che ogni pipa ha il suo cappuccio sostituibile. Insomma, fumata tra gente cordiale che gioca a carte, se non fosse per le giallabyya, potemmo essere in una baita in trentino… Dopo due giorni, possiamo già dire che i siriani sono davvero un popolo ospitale. Chiamarli genericamente arabi sembra far loro del male e non rendergli giustizia (non perché il termine ‘arabi’ sia intriso di valenza negativa) ma perché i siriani sono a sé… Per nulla egiziani, assolutamente poco mediorientali, davvero eleganti sotto un certo punto di vista, dei signori. Sono sicuro che per tutto il resto della vacanza, questo nostro comune parere non muterà. La luna splende, nell’aria padroneggia sovrano il profumo del sapone di Aleppo che svetta in migliaia di negozi. Montagne, cataste. Ne acquistiamo qualche chilo a testa, insieme ad una tamarrissima collana dorata da cui pende una Kaahba mecchese, zampettiamo al S.H.. Mi dicono essermi addormentato in tre minuti, mentre i compagni, più fini d’udito, hanno trascorso una notte da incubo tra clacson, urla, schiamazzi, scricchiolii e polverose ante sbattenti. Il sole alle 7 picchia forte forte, scendiamo per strada, in una specie di barettino vicino all’albergo, ci accomodiamo per una bevanda calda, (no il caffè turco di mattina, un incubo per il risveglio forzato). L’usanza di avere qualcosa di dolce da sgranocchiare mentre si sorseggia una bevanda non è levantina, per cui Pinna, costantemente affamato si getta per strada senza manco guardare le macchine che sfrecciano, diretto in un piccolo chiostro venti metri a destra che vende ogni sorta di dolciume confezionato, insieme a penne, quaderni, giornali ed accendini… Proprio da uno di questi si lascia rapire e ritorna con qualche pacchetto di biscotti e degli accendini con la particolare dotazione luminosa, che proiettano una gigante immagine del leader libanese di Hezbollah, Nasrallah… Io ho un po’ paura, mentre i ragazzi e il proprietario stesso del bar, che notano l’oggetto, a momenti cadono in trance per la gioia… Insomma, aveva appena acquistato l’oggetto clou della vacanza aleppina.
Una strana combinazione di bus e passaggi in autostop ci portano ad assaporare un viaggio nel rimorchio aperto di un camion, insieme a tre siriani che trasportano nahal, coperte da un telo nero… Ci offrono cibo e acqua (piena di microrganismi galleggianti) Manu mangia e beve senza rifiutare perché molto educato, Pinna, simula appetito e getta piccoli pezzi di pane alle sue spalle ad ogni momento di distrazione dei nostri gentili trasportatori. Insistentemente ripetono nahal, nahal, orgogliosi, fino rivelarci, con un gesto disteso e sicuro il loro carico: un’arnia gigante auto-fabbricata con mezzi di recupero contenete qualcosa come miliardi e miliardi di API! Che paura! Un piccolo guasto alla recinzione e potremmo venir trasformati in enormi puntaspilli… I gentili signori ci lasciano ai piedi del monte dove sorge il monastero, un paesino che sembra uscito dal cretaceo, con curiose case come simili a dei trulli color rosso ocra, da cui sbucano dettagli architettonici provenienti da chiese diroccate. Gli abitanti timidamente nascosti ci guardano dietro le tende di casa, mentre i bimbetti, per nulla spaventati ci rincorrono alla ricerca di qualche penna o caramella, e ci offrono acqua (bene più prezioso da quelle parti). Io è Pinna rifiutiamo, ma al solito Manu, educatissimo, sfidando la sorte, accetta. In quella bottiglia si intravedeva ogni sorta di microrganismo e battere che si possa trovare in vitro, e una volta sorseggiata l’ultima parte del prezioso quanto ricco liquido, un bimbo accorre sotto lo scarico di un condizionatore che sgocciola poco più in la, ed ecco svelata la dubbia provenienza di quella fanghiglia. Conveniamo che Manu è pazzo! Dopo una salita a piedi tra recinzioni ovine e resti ecclesiastici, arriviamo al monastero di Qalat’ Siman, ovvero un posto meraviglioso, arroccato su un’altura che sembra esser stato la costruzione cristiana più grande prima dell’edificazione di Santa Sofia e San Pietro. Questo luogo di preghiera, artisticamente ben progettato rende l’idea di come doveva esser nei sui momenti gloriosi. Al centro un troncone di colonna sembra aver ospitato per molti anni, San Simone, detto appunto Stilita.
Qui, lo strano anacoreta, dall’alto della sua colonna di circa 15 metri, riceveva visite e vettovagliamenti dai suoi fedeli. Subito dopo la sua morte, avvenuta nel 459 d.c., iniziò l’edificazione del complesso. Correva l’anno 476. Per secoli è rimasta metà indiscussa di religiosi da ogni dove, fino a sprofondare nell’oblio in seguito alle ripetute invasioni, arabe, mongole e cadere nel dimenticatoio a partire dalla prima metà dell’undicesimo secolo dopo cristo. Oggi tra le rovine, sorridenti ragazzini ti offrono ‘teen’ ovvero verdissimi fichi in ceste di paglia, e ti chiedono incessantemente una ‘surah’ foto, orgogliosissimi con le loro t-shirt inneggianti al più famoso stilista italico in M.O.: GEOrgeo Armani. Cari i ragazzini col le loro piccole sorelline! Che visi meravigliosi e felici. Passeggiamo tra le rovine come piccole gazzelle. Poco alla volta si scendono le scale, che diventano strada sterrata tra vestigia di altre chiese, talune diventate recinti per ovini e qualche arbusto che ricorda il già menzionato pino marittimo. Bella gita, un paio d’ore ci attendo per il ritorno, in città qualche acquisto nel souk che dalla moschea Ommyade, si dirige verso la porta di Antiochia, ad ovest. A Manu questa cosa sta davvero a cuore, e siam parecchio stanchi. Raf è d’accordo, perché non farci un hammam rilassante? Il primo che si palesa di fronte a noi è il Na’eem Hammam. Non è particolarmente bello, ma l’idea di farci coccolare sfonda ogni remora. Lavaggi, saune, strofinamenti ed insaponature si susseguono sui nostri corpi, lasciandoci in imbarazzo quando gli addetti al bistrattamento (di questo si tratta) ci mostrano la pelle rimossa, nulla di strano, se non fossero loro a sottolineare la poca cura che abbiamo del nostro corpo… Bah… Tutto bene, se un uno strano episodio capitatomi in cui un energumeno baffuto, con due mustache a manubrio, con strategica mossa da esperto sodomita, mi getta prono al suolo, ginocchia sulle mie braccia fino a far appoggiare i suoi ignudi gioielli che penzolano sotto la foutas a scacchi… Mi dimeno, ma la faccia è schiacciata al suolo, Raf mi osserva e non capisce, anzi, in un tentativo di entrare nella stanzetta, viene mandato fuori, lui obbedisce ed esce, lasciandomi li come una zebra il quo collo è tra le fauci del leone. Mi libero, guardo lo scaltro individuo negli occhi e gli dico ‘mukazziz”. Ma l’episodio non mi turba un granché, il mondo è pieno di fraintendimenti e magari anche di turisti che al gioco ci stanno. Rientro in albergo, tutti assonnati, aria allampanata, cena, l’ultima prima di lasciare l’Indomani, la città grigia. Il quartiere armeno risulta essere l’angolo migliore in cui recarsi per cena, nel ristorante adocchiato ieri pomeriggio, il Jasmin Restaurant, è davvero azzeccato. Dopo il portoncino borchiato, si apre a noi un’enorme stanza rivestita in maiolica, un cortile interno, con angoli appartati e arredati con gusto finissimo ci accolgono, insieme appunto al profumo di gelsomino appena sbocciato. Un grazioso ragazzino, tal Fouad Ibrahim ci accompagna per tutta la serata, il docile e sorridente garçon ci vizia, vino, dolcetti e ogni prelibatezza ci viene servita con cura. Insomma, una serata meravigliosa. Uscendo ci lasciamo il cuore, cotanta bellezza merita di essere ricordata negli annali. Siamo galvanizzati, ma felici. La mattina seguente, un bus, ormai collaudato come mezzo di spostamento ad-hoc, ci porta a Hama, l’antica Epifania. Ci sistemiamo in un albergo che sembra una clinica per esperimenti nel deserto del New Mexico, si chiama Cairo Hotel, prendiamo una tripla, fredda gelata, che da su uno spiazzo di fronte al ponte sullo storico fiume Oronte, dove gigantesche norie arrugginite di circa 20 metri di diametro, cigolano da millenni sulle placide acque verdastre, atte all’irrigazione; ad oggi, in funzione ne restano 17. Queste norie accompagnano il ritmo cittadino con il loro costante suono, lento e ritmico; fa impressione vederle roteare, tutt’intorno barconi con ristoranti e qualche negozietto di antiquariato decorano questa enorme collana verticale come piccole perle, insomma una parure degna di un titano. Hama non è una città molto interessante, ma tutt’intorno, per gli appassionati di storia vi è davvero molto da visitare. Come prima tappa, nel pomeriggio afoso, puntiamo verso Apamea.
Dopo un breve tragitto in microbus veniamo lasciati ai bordi di una strada quasi desolata. Non v’è ombra di mezzi di spostamento, per oltre un quarto d’ora. Finché si arresta un furgone nero, un camion come quello che utilizzano i muratori (uguale per forma a quello dei trasportatori di api) e leggermente puntinato di colori tipo verde, rosso e bianco. Io salgo davanti con l’autista, mentre pinna e Manu salgono dietro. Bastano pochi secondi per rendermi conto che il soffitto color argento impunturato, la quantità di oggetti sacri, il microfono e soprattutto l’impeccabile abito dell’autista non potevano che essere gli elementi fondamentali di un ossequioso funerale! Guardo dal finestrino dietro ai sedili i miei compagni di viaggio, che mi salutano con la manina come due bambini, indico loro la sopraelevata metallica tipo tavolo che sta dietro le loro spalle (il porta feretro) e mi faccio un segno della croce. Subito smettono di sorrider e di agitare le mani. Io sgrano gli occhi. Un viaggio sul carro funebre da vivi non c’è lo potevamo aspettare… Apamea, questa città porta il nome della favorita del generale diadoco Seleuko, che la fece fiorire come centro mercantile tra Antiochia, la nuova capitale seleucide e Dura Europos, sull’Eufrate, sulla strada per Babilonia. Come mi piacciono i nomi propri di persona attribuiti alle città, danno loro un aspetto umano e vivo, anche se di questa città resterà solo qualche colonnato, simile ad una traccia scheletrica di un corpo ritrovato sotto terra, e tutto l’amore di un sovrano per la sua amata donna. Se non fosse perché difficile contendere il primato di Miss Syria a Palmyra, Apamea sarebbe la degna vincitrice. Colonnati le cui scanalature non sono verticali, ma bensì simili a quelle del baldacchino berniniano di San Pietro. Cardo e decumano si incrociano amabilmente, si danno la mano voltando le colonne in direzione della porta d’Antiochia, del teatro greco e del Qalat’Mudiq, il castello arabo, costruito con le pietre sottratte alla città martoriata dai terremoti. Raccolgo un sasso, me lo metto in tasca, bimbetti irrequieti scorrazzano su un mulo picchiettando, li ‘sgrido’ e dico loro che anche gli asini sono creature di Allah, per cui, andrebbe portato loro dignitoso rispetto. Speriamo… Mi guardano basiti, magari danno una legnata pure a me… Ci si perde tra le rovine battute da un vento costante e fresco, arriva dal mare. Sollievo. La passeggiata termina in direzione del taxi, dove da un negozio plurigeneris, acquistiamo, ormai disidratati, la famosa coca locale, l’Afamya… Ritorniamo ad Hama, una passeggiata lungo l’Oronte e una piccola sosta in un negozietto ai piedi delle norie, dove un signore dall’aria francese, vende ogni sorta di orpello vecchio o addirittura antico. Acquisto un anello dall’aria davvero vetusta, una spilla che manco si apre tanto è arrugginita, Manu, vedendomi osservare una placca in argento con incisi versi coranici, che reggeva in mano (che ovviamente piaceva molto anche a lui) l’acquista, per poi regalarmela. Grazie amico. Tramonta il sole dietro lo scheletro delle norie tanto da sembrate affettato dalle stesse, frazionato e reso più abbagliante dal gioco di chiaroscuro che va creandosi con i raggi delle ruote. L’appetito e la voglia di sedersi in riva al fiume rendono grazia ad una giornata così movimentata. Sosta in un ristofamily sul lungofiume, menù solito di kubz, felafel, lentil soup e mezé varie. Osserviamo il lento scorrere del fiume, chiamato, oltre che al suo storico nome Oronte, Naher Al-Asi, ovvero fiume ribelle; unica considerazione che riusciamo a partorire è che sarà certamente per la sua aria così punk. Si zampetta in camera, solito freezer atto al congelamento dei pesci pescati sulle tonnare giapponesi e di conseguenza notte travagliata. L’indomani, poco dopo il sorgere del sole, un taxi ci porta alla Autobus Station, un misto tra la spianata delle Moschee di Gerusalemme e un deposito rimessa di veicoli perennemente accesi che creano uno smog, il cui piombo, se potesse essere raccolto e fuso, potrebbe ricreare la tour Eiffel. Da qui è la volta per Homs, la mitica Emesa, città storica che diede i natali a molti imperatori romani, filosofi e fu teatro di efferati scontri tra l’oriente e l’occidente. Della storica città resta ben poco da visitare, ma tutt’intorno, come in una costellazione, qua e là è possibile trovare castelli, chiese, vestigia di un passato glorioso, fatto di battaglie, scontri ed epocali stravolgimenti. Homs serve da punto di partenza per due grandi punti di attrattiva, il Krak des Chevaliers e Palmyra. Si parte per la prima tappa, il famoso, anzi il più famoso dei castelli crociati in medio oriente, chiamato anche Qala’t al’Hisn, castello fortezza o Akrad al’Hisn, castello dei Curdi.
Questo possente castello fu costruito per volere dell’emiro di Aleppo nel 1031, ed i saraceni riuscirò a tenerselo fino al 1100 quando Bertrando, giungendo da Tripoli, lo espugnò. Tra terremoti vari, catastrofi e scontri, i cristiani lo tennero anche oltre la battaglia di Hattin, che riconsegnò Gerusalemme agli arabi, e solo nel 1271 venne ceduto ai levantini comandati da Beybars perché impossibilitati a resistere a causa del mancato approvvigionamento. Svetta tra gli appezzamenti coltivati tutt’intorno, come un grande bracciale in arenaria posato su un drappo in broccato verde, possenti mura, fossati ricolmi di acqua verdastra, ponti e torri, qui certamente si son consumati eroici scontri di inenarrabile portata, culturali e religiosi, che si ripercuotono sulla nostra attualità. Ciondolare all’interno della fortezza ti trasferisce in un’altra dimensione, pertugi da cui penetrano raggi solari, antri fortemente iniettati di olezzi umani, stalle, cucine e bagni turchi… le prigioni… chissà com’erano in quei tempi. Insomma, un piacevole giro nella storia, persino il tempo ci accompagna, qualche voluminosa nuvola carica d’acqua che giunge dal mare, se si scaricasse in questo momento, potremmo provare l’ebrezza medioevale tipica dei racconti epici (ma anche no). Felici e contenti come tre fanciulli, si opta per il ritorno, all’uscita dei siriani intenti al gioco del backgammon, quasi non si curano del nostro passaggio, e siam costretti a disturbare il custode per riavere i nostri zaini. Ritorno sul bus saltellante ad Homs, così da concludere una giornata ricca di avventura che ricalca le lezioni di storia delle scuole medie. Homs appunto, lascerà traccia nel nostro viaggio perché sarà l’inizio della meta più ambita: Palmyra. Il viaggio in bus sembra essere una fuga, a tutta velocità, piu che una partenza. I dossi e i tratti sterrati creano dei vuoti d’aria che presto si fanno sentire. I conati mi accompagno ad uno stato d’ansia, per-febbrile. Il bus si lancia come un ago all’interno del vellutato manto desertico. Un bivio con cartelli bilingue ci preannunciano nelle vicinanze il Baghdad Café, storico locale che sorge sulla tratta Damasco-Baghdad, mentre dall’altra diramazione si va verso Palmyra. Sto male, la febbre sale. Raf dormicchia mentre Manu osserva e ridacchia vedendo la scritta Baghdad. Io ho voglia di una coperta, anche se siamo nel deserto. Prima di scendere dal bus, si decide insieme la location, il Baal Shamin Hotel, diretto da tal Mohammed, simpatico ed eccentrico individuo (by L.P.).
È circa l’una e mezza del pomeriggio, il sole picchia come solo nel deserto può avvenire, siamo assaliti da una moltitudine di taxisti che vogliono solo portarci in alberghi gestiti da zii, cugini, sorelle, amici e quant’altro. Siamo praticamente divisi da tre gruppi di autoctoni. Non vedo più i miei compagni di viaggio, anzi, non vedo più nulla. Ho la febbre, voglio una coperta ed un giaciglio e questi insistenti, non se ne vanno… unica cosa che mi riesce da fare, con la poca voce che mi resta, è urlare KHALAAAAAAS! Come per miracolo, gli assillanti procacciatori d’affari spariscono, restituendo le nostre tre figura martoriate dal trambusto. Non devono passar molti turisti da queste parti, per subire un assalto simile… in ogni caso, ne resta solo uno, il più coriaceo e resistente; per tutto il tragitto, sino ad arrivare al B.S.H. è stato un susseguirsi di proposte per piazzarci ovunque (non gratis) anche al parco cittadino… uno snocciolarsi continuo la LA… LA… LA… (negazione in arabo) ad ogni sua proposta… giunti dinnanzi al B.S.H., io cado esanime sul marciapiede che dà sulla strada sterrata, una via importante; ho deciso che curerò gli zaini mentre Pinna e Manu andranno a contrattare la stanza. Di fianco a me un polveroso cumulo di tappeti giace alla penombra chissà da quanto tempo… I due entrano nella concierge, sento il metallico rumore che proviene da questo incompleto edificio un po’ ocra un po’ grigio. Dopo qualche minuto Pinna esce e mi comunica non esserci nessuno… io sconfortato, voglio un letto… un talamo su cui giacere esanime… ma le nostre parole, pronunciate ad alta voce, destano la montagna di tappeti, che come nei film della mummia, si animano di vita propria, e non per gli acari, ma bensì per restituire un individuo in giallabyya écru, dall’aria un po’ albina, ma non troppo, forse solo fulvo (tipico siriano). Il tizio ci invita ad entrare, Raf e Manu varcano la soglia, salgono le scale, vanno a vedere la stanza e dopo qualche minuto lo sconforto ha preso possesso dei loro volti. Ma non abbiamo molte alternative, io mi spalmerei volentieri anche sul marciapiede. Per cui, lasciati i passaporti a Mohammed, veniamo risucchiati prima da questo salone ricco di polverosi cimeli mediorientali, tra cui tappeti e narghilé, poi da una scala a C e successivamente da un corridoio buio e disadorno, che termina appunto nella nostra stanza. La stanza mi sembra ancora di vederla riflessa negli occhi sconfortati di Raf. Un loculo con tre letti, le lenzuola che certamente avevano conosciuto tempi migliori (in un’altra epoca), la luce al neon e un balconcino, credo nemmeno a norma… ma la vista ragazzi, era spettacolare. Direttamente sul muro ovest del mastodontico Tempio di Baal, a circa 500 metri in linea d’aria. Cado in catalessi, sul letto, vestito. Raf e Manu mi appoggiano calzini bagnati sulla fronte, io sudo e di quella sera non ricordo molto, se non che i miei due amici, ad un certo punto, dopo essersi rotti le scatole di assistermi, sono usciti a cena. Ricordo, al loro ritorno, le mie labbra asciutte, la sete e i loro racconti di come Manu si è fatto fregar l’equivalente di venti euro per 10 cartoline, oppure di come Raf aveva scoperto il procedimento per fare un cammello di sabbia colorato in un vasetto di vetro… risprofondo per la restante parte della notte in uno stato febbricitante, cuocio a fuoco lento insieme alle pulci (verità, le ritroverò stecchite l’indomani). La fresca notte probabilmente mi aiuta a star meglio, apro gli occhi all’alba e molte stelle ancora brillano in cielo. Dal balcone, la sagoma creata dalle rovine di Palmyra è qualcosa di unico: un corpo di fanciulla adagiato sulla sabbia, il cui colonnato romano ne traccia la scheletrica silhouette e termina all’orizzonte in una chioma verde palmizio, che si agita al vento del deserto. Che spettacolo meraviglioso! Sono molto emozionato ed impaziente, ricordo che nel 2002, a Torino, vidi una mostra dedicata a Zenobia, la mitica regina palmirena e di come sognai di trovarmi in questi luoghi. Ora ero lì, felice di attraversare questo luogo storico. Palmyra è una citta molto antica, cresciuta sulla via carovaniera che dalla costa prima, ad Antiochia si dirigeva ad Apamea, gettandosi in pieno deserto ai piedi di Palmyra per poi continuare verso Dura Europos, sull’Eufrate e proseguire la sua serpentesca sagoma fino alla ricca Babilonia. Passata attraverso dominio persiano, macedone, seleucide e poi romano, la città si arricchì enormemente. Il suo stile e la sua arte si diffusero nell’impero romano, e questa slancio non fece che galvanizzare i suoi reali, Odenato prima e Zenobia e suo figlio Vaballato poi, intrapresero il cammino dell’indipendenza e dell’espansione a spese dell’impero romano, fino a conquistare la Cilicia, l’Armenia e l’Egitto, nel 269. Nel 270 i romani, iniziarono gli scontri per riprendersi le terre perdute. Il quell’anno Zenobia venne sconfitta e condotta in catene dorate sino a Roma, con il figlio. L’anno seguente, in seguito ad una rivolta, Palmyra venne distrutta. Ebbene, quello che si presenta di fronte a noi, una volta giunti all’ingresso del sito è un susseguirsi interminabile di rovine color del miele. Il sole flette i suoi timidi raggi sulle pietre ancor fresche e il colonnato del cardo proietta le sue lunghissime ombre dal sole che sorge a est. Si passeggia lungo le rovine, assaporando il gusto raffinato di questa civiltà, un po’ romana e un po’ persiana, e non avendo mai provato l’ebrezza di salire su un cammello, i miei compagni mostrano interesse (io non amo, ho paura e mi spiace per i cammelli), per cui giretto della durata di qualche ora lungo il perimetro. Ci lasciano poco distanti le macerie delle mura, dove solo dei cani randagi osano mostrar i denti a quelle poche persone che vi giungono. Io sono al sicuro su una montagnetta (da cui scorgo un pezzettino di ceramica dipinta di turchese), Raf e Manu no, e si spaventano parecchio, tant’è che sbrano mezza faccia a Raf dicendo lui di non urlare… rientrato il pericolo si passeggia fuori percorso in direzione delle Torri della Morte, ovvero costruzioni funebri che si trovano oltre la spianata lunare che va verso oriente… è l’una, il caldo e la sete ci tolgo la voglia di fare quel chilometro di andata e di ritorno che ci separano dalle Torri, per cui, si prosegue in direzione tempio di Baal.
Qui, così vicini, le mura sembrano davvero ciclopiche e nascondono il Sancta Sanctorum. Grazie ad un provvidenziale consiglio datoci forse da Mohammed, portiamo il costume, senza troppo credere a questa favoletta. Invece, ad est delle mura del tempio, celato da una maldestra costruzione in fango e nascosto dal palmeto, si cela una piccola piscina azzurra, El-Baider, angolo pittoresco gestito da due sonnecchianti ragazzi che ci accolgono sbadigliando (unici turisti) e che a ogni nostra richiesta, montano, soldi alla mano, sul loro velomotore e corrono in città, persino per prendere delle bottigliette d’acqua, che nel loro frigorifero (funzionante) non hanno… la praticità levantina. passiamo così le ore più calde nel totale relax, assuefatti da quel torpore così magico che ti stordisce, il cinguettio degli uccelli, la vista mozzafiato. A malincuore, verso le 17.00 lasciamo quell’angolo paradisiaco per non perdere il tramonto tra le colonne, una vera chicca. Qui dopo le foto scattate in un centinaio di modi differenti, voltiamo le spalle alla città d’oro, gioiello nel deserto.
Fuori dal sito una strada asfaltata bollente getta su di noi, dal basso tutta la sua feroce calura. Passiamo dinnanzi al museo palmireno, alla nostra destra, di fronte al parco e ci promettiamo di visitarlo l’indomani. Rientrati in camera, dopo una passeggiata tra i negozietti antistanti, ci si dedica alla toelettatura in un bagno in comune condiviso con due ragazzi inglesi, uno afro e l’altro sassone, senza mancare di lanciare ogni tanto uno sguardo fuori dalla finestra, per immortalare l’immagine di Palmyra nelle sue molteplici sfaccettature quotidiane. La sera giunge fresca e deliziosamente in anticipo, il sole tramonta alle 7.00 lasciando risalire lungo le gambe un tiepido calore. Si cena nel parco di fronte al museo, in totale tranquillità finché un tizio ci aggancia, mostra reperti numismatici (la mia passione) e qualche chincaglieria in vetro. Lo assecondiamo, ma non a sufficienza per farlo stancare ed il tizio corre verso il suo motorino, da cui ritorna dopo poco con delle monete. Alcune interessanti, altre palesemente riproduzioni. Pur di sganciarlo, mi fingo interessato alla riproduzione, che acquisto spendendo pochissimo (sapendola falsa) e rendo felice il signore. Passeggiata tra i negozi, qualche sosta in particolare per scambiare due chiacchiere e poi, alla volta del nostro albergo. Mohammed ci attende come sempre per avere un soddisfacente riscontro del nostro itinerario. Parla un comprensibilissimo inglese, mastica anche francese e tedesco. Ci racconta di essere innamorato della cucina italiana e Manu, da bravo cuoco, si propone di preparare gli spaghetti all’arrabbiata. A Mohammed brillano gli occhi, ci spilla l’equivalente di una ventina di euro (un furto) per fare la spesa, l’indomani e metterci a disposizione la cucina. Ci piace l’idea, soprattutto quella di varcare un angolo così intimo di un’abitazione. Saluti, ringraziamenti e convenevoli, vari, si va a dormire. Layla Sayyeda Mohammad… È mattina presto, raggi solari si adagiano placidamente sulle pareti ai piedi del letto. Il proprietario del carretto per la lavanderia, e qualche raglio seguono i lenti ritmi mattutini degli abitanti di Tadmor, (antico nome pre-palmireno dato alla città nuova). La nostra discesa per strada è finalizzata alla colazione e al museo. Passeggiando per i vicoli della cittadina, che comunque tanto piccola non è, visto che conta 45.000 anime, ci si accorge che il nucleo pulsante deve ancora svegliarsi. Dietro le saracinesche semi chiuse, i proprietari sbadiglianti si stiracchiano, quasi senza accorgersi di tre turisti, oppure, per i più mattinieri, chiedendoci cosa facciamo in giro alla buonora. Insomma, dopo una breve sosta nel parco oasi di fronte al museo, sorseggiando un caffè, ci si pone domande esistenziali di come ci potremmo adattare se vivessimo in quella cittadina; io immagino me stesso dotato di metal-detector alle prese con scavi nella speranza di ritrovare monili arrugginiti, rigorosamente vestito con abiti indigeni. Raf pensa ad un salone di bellezza per uomini (essendo proibito alle donne recarsi da parrucchieri di sesso opposto) e Manu pensa ad un mini spaghetti fast-food per i locali e per qualche turista propenso alla sperimentazione di una cucina italiana nel deserto. L’ingresso del museo ha un sapore nasseriano, con gigantografia di Bashar el-Assad accarezzata da due sventolanti bandiere siriane ai lati. Nei corridoi del bel museo (Mathaaf Tadmor) riconosco qualche pezzo visto a Torino, e sorrido un po’ perplesso di fronte a queste opere, spesso decorazioni funebri, destinate ad essere statico monumento in terra, perpetua memoria di un corpo dissolto, che migrano per il mondo. Sono felice se poi penso alla fortuna di vederli in loco, e a quanto funzionale sia la migrazione delle opere per chi appunto non si può spostare. Qualche ora trascorsa all’interno per poi uscire nella corte dove mezzi busti in pietra si ergono tra le verdi aiuole frequentate dai passerotti.
Ancora una volta ci troviamo con il sole allo Zenith che picchia sulla capa. Non c’è molto da fare se ci si trova in una cittadina nel deserto nel primo pomeriggio, anzi, non c’è nulla se non bazzicare velocemente in camera, aspettando che scenda la calura. Verso le sei, iniziano i preparativi per la cena, Mohammed ci consegna gli ingredienti (del resto nemmeno l’ombra) che constano in: pomodori, pasta spaghetti, una bottiglia di San Giorgio, un ottimo vino locale per i cristiani, formaggio di capra, peperoncino e cipolle (20 euro, vi rendete conto? In Syria ci acquistate una bicicletta). Saliamo la rampa di scale, con le chiavi in mano, al secondo piano, uno sgabuzzino stretto e alto, composto da una lastra di marmo su cui poggia un fornello a gas, un pensile vuoto, una busta di plastica nel cui interno c’è poco meno di un cucchiaio di sale (i popoli del deserto non lo usano, siamo fortunati a trovarne anche solo un pizzico) ed un paio di pentole che sembrano esser state dimenticate da qualche proprietario di cane un po’ distratto. Ci dividiamo i compiti: Manu al condimento, ovvero tagliuzzamento dei pomodori e cipolle, Raf aggredisce con così tanta veemenza le pentole che le riporta allo splendore originario, tanto brillano, io ciondolo dentro e fuori cercando di far qualcosa, ma quel pertugio mi da l’ansia… Scatta la corrente, con la candela si scende le scale per avvisare Mohammed nella speranza di non restare offesi cadendo ruzzoloni o preda di qualche scarabeo gigante. Torna la luce e meccanicamente ognuno torna ai suoi compiti. Io al nulla. Ecco, si, ho scolato la pasta. Fiero Manu porta seco la prelibatezza, noi lo seguiamo come i re Magi, recanti formaggio e mestoli. Al tavolo Mohammed ci attende con un suo amico che lavora nell’albergo di fianco al nostro, un tre stelle, e che parla italiano. Il proprietario ci aspetta con forchetta e cucchiaio alla mano, tipo Totò in Miseria e Nobiltà; il suo amico dimostra essere più di modi come dire, fini, e di essere più interessato alla conversazione che al cibo. Raf stappa il vino Mohammed ci si getta sopra, con il suo unico dentino azzanna la pasta come uno squalo, facendo uscire dalla bocca rigoli di pomodoro e lembi di pasta, come se fossero brandelli di carne… Lo spettacolo è parecchio disgustoso, tanto da allontanare l’appetito. In totale i due si sono spartiti 7 etti di pasta, noi 3 i restanti trecento grammi. Ci hanno ringraziati offrendoci un te e una canna comune (declinata, obviously), sottolineando di aver gradito enormemente, (ma dai?) il tutto. La sera trascorsa sul balcone e a ridercela, un po’ di quella strana serata. Felici e contenti comunque di aver reso sazi due famelici siriani e di aver noi stessi assaporato un piatto così comune, preparato con ingredienti locali, ma soprattutto in una cucina così sgarrupata, questo piccolo esperimento culinario/professionale lo ricorderemo con il nome di Mathaam Sue-Hellen (in onore dell’alcolizzata protagonista di Dallas). Meshallah, Tadmor! Bukra mhyn Dimasq…
Bus alla magnana, qualche ora di viaggio ed eccoci arrivare in un piazzale supermegaffollato, rumoroso e caotico. Al solito il sole e l’afa ti stringono la gola. Un taxi ci porta nella piazza principale, Marjeh, un bell’angolo con palmizi, ristoranti ed un Mc Donald. Una piccola sosta in un café bar ci restituisce la forza. Brioches e dolci alla francese, molto smog, un ufficio di cambio e la ricerca di un albergo occupano la prima ora di arrivo nella città più vecchia del mondo, sorta su 10.000 anni di storia. A passeggio per la città coi nostri zainoni pesantissimi, siamo davvero affaticati. Diretti verso l’Hotel Al Haramain, in Sourja Bashha Street, che si raggiunge dopo saliscendi attraverso cavalcavia pedonali, vialoni iper trafficati, inalazioni di smog da inceneritore partenopeo e finalmente si raggiunge la zona dell’albergo. Una vietta meravigliosa con pergolati di glicine che si tendono sulle nostre teste si diramano su quell’angolo inaspettatamente bucolico. L’albergo è una sorta di vecchia casa mercantile, stile settecento ottomano, parzialmente in legno abitata da strani e divertenti individui. La proprietaria, una cristiana ci accoglie amabilmente e ad un cero punto mentre si chiacchierava dei prezzi dell’alloggio, accoglienza e colazione, mi interrompe e mi dice: your english are very romantic… (chissà cos’avrà voluto dire…). Vabbè, saliamo al secondo piano, una cigolante scalinata in legno ci porta al piano dove avremmo trovato alloggio. Una camera meravigliosa, vecchio stile, il cui balcone in legno sporgente da’ sulla strada. Una chicca, il ballatoio interno comunicava con le altre stanze e si riversava su un cortile interno con fontanella, maioliche e turisti intenti a leggere. Un’altra scala porta verso il terrazzo sul tetto, quello in cui i più temerari backpekers dormono in sacco a pelo sotto il manto stellato. Che bel posto, finalmente! Depositiamo gli zaini, doccina e giù per le vieuzze damascene. Primo step un giro per il centro, attraversando (senza fermarci) stradoni fino a giungere alla fortezza a ridosso delle mura. Qui Raf si lascia conquistare da un incantatore affettacarote e i suoi aggeggi affilati. Lo acquista. Si passa attraverso la via principale che ci introduce nel souk coperto che precede la Moschea Ommyade. Questo souk presenta ancora i segni dei bombardamenti francesi pre-indipendenza. Un forte profumo di tostatori di caffe sale per le narici, i venditori di granite rapiscono la nostra poca forza di volontà di resistere alle leccornie, si sbuca di fronte ai MERAVIGLIOSI resti del tempio di Giove, ancora ben conservati, per giungere in una piazzetta piena di piccioni paffuti che beccheggiano cibo gettato qua e là. Una piccola piazzetta, disseminata di banchetti che vendono dalle noccioline, spremute e giornali. La moschea sorge sui resti di quello che fu il tempio di Hadad degli amorrei, poi di Zeus per i greci, Giove per i romani ed infine di San Giovanni Battista per i cristiani. Nel 661, dopo la conquista araba, Muawya fece erigere un luogo di culto dove già i cristiani celebravano i loro riti, non per nulla, Giovanni Battista è un ‘profeta’ anche per i musulmani. Che esempio di buona convivenza! Successivamente, opere di islamizzazione portarono alla creazione della grande moschea, utilizzando in parte costrizioni già esistenti, come i minareti (ex campanili) chiamati ancoraggi di Gesù e della sposa. La moschea si apre su un cortile in marmo super extra lucido, uno specchio, sembra ghiaccio e riflette la luce del sole abbagliando i pellegrini. La facciata è finemente decorata con mosaici stile bizantino, con elementi vegetali ed architettonici per nulla consono alla tradizione araba iconoclasta. Tutt’intorno si possono ammirare i colonnati ombrosi, in perfetta sintonia con l’austerità del luogo. Una torre sopraelevata a destra sorretta da otto colonne romane, racchiude il tesso della Moschea. Davvero un posto unico nel suo genere, concepito assimilano dettagli architettonici cristiani e saraceni. All’interno una sorta di santuario conserva la testa del figlio di Ali, sacro agli sciiti, dopo la disfatta di Kerbala. Sempre all’interno vi è un reliquiario in cui si racconta esserci la testa recisa di San Giovanni Battista. All’esterno di questa grande moschea vi è niente di meno che la tomba di Saladino. Il feroce e saggio Saladino, colui che fece tremare l’occidente, che si riprese Gerusalemme e che fece di Damasco la capitale Ayubbide. Il suo semplice mausoleo conserva due monumenti funebri, uno in stile occidentale dono del Kaiser Guglielmo II in visita al grande re, l’altra, la sua vera tomba, più semplice e meno solenne. le spoglie del sovrano furono conservate per secoli nella cittadella, poi spostate all’interno della moschea in seguito ad un restauro foraggiato appunto dal Kaiser, e successivamente visitato da un generale francese al comando delle truppe di stanza in Syria, dopo averla conquistata, che la scalciò intimando Saladino ad uscire perché i francesi erano tornati (idiota). Damasco ha la strana forma ‘a patata’ tagliata da vie parallele e perpendicolari tipiche delle città romane. Le sue vie sono belle e costellate di pasticcerie, librerie e coperte con una fitta trama di glicini che lasciano trapelare qualche raggio di sole. Ogni negozio espone (povero) una gabbietta con pappagalli cenerini e amazzoni, che sembrano tanto il mio Erode. Carra lui… Passeggiamo percorrendo la recta via, quella romana, sino ad arrivare nei pressi della cripta di Sant’Anania, il primo vescovo di Damasco, convertitore di Saulo, divenuto San Paolo. Poco prima di Bab el Shark, una situazione davvero irreale si stava creando. La caldana pomeridiana, il coatto ritiro di tutti i damasceni nelle loro abitazioni, ci lanciano un subdolo messaggio da codificare il prima possibile. Ritirarsi all’ombra. Bene, scegliamo una sorta di pertugio buio, celato da una porta vetro da cui fuoriesce uno strano odore dolciastro. Che si tratti di un luogo di conversazione simile ai nostri bar, non vi è dubbio. All’interno sembriamo risucchiati da un’atmosfera d’altri tempi, il piccolo locale è un Arak Bar, dove servono solo ed esclusivamente il fortissimo e nauseante liquido alcolico prodotto dall’anice, una bomba atomica di 40°! Seduti al nostro tavolino, immobili sotto allo split dell’aria condizionata (al solito smodatamente utilizzata) sorseggiamo un bicchierino… uno, due… dopo un po’ è piacevole il sapore… e qui, appunto ci si avvicina un signore, che ci racconta di aver vissuto in molti paesi del mondo, tra cui l’Italia, ma è del Brasile che ricorda il tempo miglior speso. È ubriachissimo e ride talmente di gusto, e così forte da sembrar seduto dinnanzi a Scary Movie. Il signore ordina due, tre, quattro giri di arak per i suoi amici italiani, spesso le ordinazioni avvengono in portoghese, francese del deuxieme, cockney english… a tratti è divertente, a tratti imbarazzante… usciamo, sono le due del pomeriggio, il sole e l’arak fanno la loro parte… ci aggiriamo barcollando come zattere alla deriva, verso la porta… varcando le mura, giriamo verso sud, in direzione di Bab Kisan, una splendida porta riallestita a chiesa, meta di pellegrinaggi tra cui quello di papa Giovanni Paolo II. Da qui si narra che su una cesta San Paolo, appena convertitosi, fuggì calandosi dalle mura del quartiere ebraico mentre veniva inseguito dai soldati romani… gran bel gesto (lo ammetto, San Paolo non mi è mai piaciuto… ho la certezza che il mio nome derivi da San Paolo Egizico, venerato il 15 gennaio, giorno della mia nascita). Intanto, tra le grigie pietre alcuni funzionari religiosi, allestiscono fiori ed addobbi per un matrimonio che si celebrerà l’indomani. Qualche minuto di sosta e a ritroso passiamo nel quartiere ebraico, per incamminarci poi sulla via più semplice per non perdersi, Bab Sharqi, passando sotto all’arco romano. Qui, altro episodio degno di nota, incontriamo una signora siro-francese, moooolto eccentrica, vestita di verde fluo che indossa una simil zanzariera in testa color lime. Davanti a lei un ragazzo siriano, con le borse della spesa, era il suo facchino. Lei si rivolge a me in francese imprecando contro ai vizi e malcostumi siriani, che spaziano dall’incuria alla sporcizia, al pressapochismo e negligenza, lui si arresta di colpo, si accosta a me e inizia a camminare al mio stesso passo e sorridendo mi dice, ‘azii imara asnouna…’ ovvero questa donna è pazza, e procedono così di fianco a noi, insultandosi in francese e arabo… sembra una scena da siparietto vianelliano. Procediamo verso la parte ovest della città antica, alla ricerca del tanto nominato Hammam Nureddin. Varcata la soglia ci rendiamo subito conto di non essere solo in un hammam, ma bensì in uno dei più belli di tutto il Medioriente. Antico, dall’aria pulita e curata, interamente coperto di marmo, con vasche, fontane e sollevamenti eburnei. Una gioia per gli occhi e per lo spirito.
Qui dentro le ore volano, tra massaggi, saune e scrub, come secoli addietro. All’uscita, una piccola sosta nel locale più famoso di tutta Damasco, Bakdash, un’enorme gelateria, dove ragazzetti muscolosi maneggiano enormi pestelli in legno, atti a sminuzzare il ghiaccio, con energica forza e un sorriso smagliante. Ottimo gelato tra gli indigeni ossequiosi ed ospitali, il proprietario, un giovane e aitante siriano dall’aspetto colto e linguaggio forbito, mi invita ad accettare un cucchiaio con iscrizione del locale, che mi riempie di gioia. Enchantee. Ci troviamo nella via coperta e qui un po’ di voglia di acquistar qualche oggetto ci viene. Io mi lancio su una passamaneria decorata con pavoni turchesi e blu, una teiera, e dei bicchierini da te per me e per Raf, Manu, anche lui acquista di tutto, fino a giungere in un bellissimo negozio di falegnameria, dove acquistiamo stampi per dolci da riutilizzarsi come sottopentola, pestelli e cucchiai. Qui facciamo conoscenza con un siro italiano, che ha un ristorante a Milano, il Tempio 2… passeggiando di nuovo in direzione della moschea, ci fermiamo in un negozio di argenteria, dove io e Raf ci acquistiamo reciprocamente un paio di anelli con iscrizioni coraniche. molto belli. Qualche metro dopo, in un originale atelier gestito da artisti giovani e simpatici, mi faccio rapire da un portasapone in terracotta smaltata fatto artigianalmente in loco… dulcis in fundo, giunti all’angolo della recinzione della Grande moschea che volge verso la Porta occidentale del tempio, Manu entra in un negozio di chincaglierie seguito da noi due. Vuole un paio di pashmine da regalare, anche Pinna le desidera e parte una contrattazione sfinente di quasi un’ora, per poi acquistarle ad un prezzo folle. È ormai quasi l’ora del tramonto, il sole lascia spazio a colori più soffici e temperature più miti. Il peso degli acquisti è eccessivo, urge tornare in albergo. Pochi metri prima di varcare la soglia, una simpatica colomba mi plana sulla testa, si accomoda e ci resta per qualche istante prima di allontanarla, confusa forse dalla mia testa, simile a un nido, probabile. Saliti in camera alla ricerca di un po’ di ozio, Manu si distende a fumare di fronte alla finestra, dove dall’altra parte della strada un ragazzo sonnecchia in camera sua poggiando la pianta dei piedi lerci sul davanzale. Raf inizia a fare cose strane, da qualche ora ci informa di avere male alle reni, da entrambe le parti, Manu allertato dal malanno, apre immediatamente il suo beauty pronto soccorso ed inizia ad estrarre farmaci pro e contro qualcosa: ovvero diuretici e antidiarroici, paracetamolo, antibiotici vari e quant’altro. Dopo averli selezionati e sminuzzati, con dell’acqua li facciamo ingerire a Raf, la prima botta è somministrata. Si lamenta per un’ora buona poi sembra star meglio, si alza e passeggia nel ballatoio, accusando però un dolore sordo alla schiena e qui, una ragazza tedesca della camera accanto, si premura, con la sua busta pronto soccorso, di consigliarci qualcosa. Nel disordine totale, aggiungiamo un’altra pastiglia al menu di Raffaele… Peccato che dopo circa una mezz’ora, la gentil tedesca ci ha chiesto se per caso avesse dimenticato le sue pastiglie anticoncezionali in camera nostra… ebbene si, erano sul letto e ne mancava una, ora nello stomaco del malcapitato. Verso sera, sembra le cose migliorino un pochino, Raf se la sente di uscire a cena, io propongo salto all’ospedale che lui rifiuta. Il settore sanitario in Syria sembra buono, insisto, lui declina dicendo di non voler aggiungere altre infezioni a quelle già in corso. Per cena ci dirigiamo non lontano dal nostro albergo dove vecchie vie si incrociano con moderne sharia un po’ brutte e è spoglie. C’è persino qualche discoteca da cui fuoriesce un misto arabic tekno allucinante. Torniamo nella città vecchia, Il locale scelto per la cena è l’Elissar, nella città vecchia. Un bel posto che si anima di sera, dove nel cortilone centrale danzano dervisci e si fuma narghilé. Noi ci sediamo nella parte superiore, accessibile lungo un’alta scala che costeggia il grande muro interno. Al termine della cena, Pinna si lancia, scendendo nella corte, alla richiesta del ‘conto’ che credeva gli avessi ben insegnato, in arabo; peccato che io sia un po’ dispettoso e che non gli insegni una richiesta tutt’altro che chiara, tant’è che gli occhi strampalati del cameriere verso di noi seduti ridacchianti al tavolo, ci comunicavano di aver fatto centro! Passeggiata lungo le vie antiche, dove la sera si respira un’aria un po’ bohémienne, fino ad arrivare al nostro albergo. Nanna. Manu fuma come una ciminiera puntando la sua curiosa insonnia verso la finestra di fronte. Chiudo gli occhi, Pinna inizia ad agitarsi, entra ed esce dalla stanza, si lamenta, continua a digerire e altri sintomi da imbarazzo alimentare, non si chiude un occhio nell’assisterlo, finché un cocktail farmacologico simile (mancava l’anticoncezionale) al giorno precedente, lo rilassa un po’ facendolo addormentare. Meno male. La mattina giunge ed il risveglio post-muezzin in sincronia, ci accompagna al piano di sotto per la colazione, ottima, tra tavoli intarsiati e signori baffuti che si aggirano in accappatoio per gli atrii sottostanti. La destinazione è Mallulah, l’unica città al mondo in cui si parla ancora l’aramaico, e ci accorgiamo di quanto sia dura, sentendo qualche parola pronunciata dal taxista, mallulino. La città è ovviamente a maggioranza cristiana, il monastero di San Sergio, stupendo, è il cuore pensante, mentre arroccata su un costone di una montagna, vi è un canyon, che la leggenda vuole sia creato per permettere a Santa Tecla, inseguita dai soldati romani, di mettersi in salvo. Ultima tappa un angolo vendita souvenir dove un signore gentilissimo con il suo tenero figlioletto, mi vendono una sorta di tortora turchese camuffata da pavone in terracotta smaltata. Ritorniamo in città, è pomeriggio e il desiderio di tornare a scoprire quella meravigliosa città ci da la forza di sfidare la calura.
Lungo le mura della fortezza, vediamo per la prima volta nascosto tra case secolari, il fiume Barada, dove fu battezzato San Paolo. Oggi solo un rigolo d’acqua, maltrattato dall’incuria, chissà quant’era bello secoli fa, quando serviva la città. Palazzo Azim, in restauro, molte chiese e sedi religiose, moschee, insomma è costellata ti posti storici davvero interessanti. Ultima sera a Damasco, trascorsa all’Old Town, una sorta di mega pub all’orientale, all’interno della città vecchia, passeggiata nei vicoli vicino al nostro albergo, fumata di sciscia e visita a discoteca indigena (1 minuto – mera curiosità) per rientro anticipato in camera, chili e chili di sovraccarico ci aspettano per essere stipati negli zaini, ahimè, troppo piccoli per contenere tutto. L’indomani, visita al Museo Nazionale, dove millenni di storia ti stordiscono nei suoi chilometrici corridoi ricoperti di ogni sorta di fine e prezioso manufatto. All’interno del Museo, si trova persino una sinagoga ebraica, estirpata dal deserto e qui riposizionata. Seduti all’interno del luogo religioso, uno strano impulso cleptomane fa si che raccolga un runner su cui mi son seduto e lo portassi con me. Non dovrei né raccontarlo n’è altro, solo un po’ vergognarmi, ma questo tappeto non ha alcun valore storico. Un toc toc del custode al portone d’ingresso ci scuote, io terrorizzato cammino veloce come una gazzella verso l’uscita. Il giardino e poi gli ultimi passi in direzione dell’elegante stazione ferroviaria dell’Hegijaz, costruita dagli ottomani per collegare Costantinopoli con La Mecca. Vetrate colorate e pareti bianche, cornicioni e balconate in legno… Ora ti salutiamo, amata Damasco, amatissima Syria, in direzione Istanbul e poi Milano… Spero un giorno di poterci tornare, ti porteremo sempre nel cuore. Grazie anche a tutti i siriani. Meshallah.
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